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la via nascosta

Votes taken by amarisia

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    2 note e appendice a "parti della Maitrī Upanişad"

    qui
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    prima che adelphi pubblicasse "la tenebra divina" avevo tradotto diversi articoli di A.K.C: che sono stati poi pubblicati in quel libro,
    da questo link il PDF con una copia dell'articolo in questione fatta confrontando la mia traduzione con la loro e con l'aggiunta della spiegazione di alcuni termini in sanscrito
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    Etimologia del termine “Cherubino”

    La derivazione e il significato del termine ebraico "CHERUBINO" è stata discussa dai signori Dhorme e Vincent.1 L'origine accadica della parola kerûb e l'origine babilonese della forma duttile nella letteratura ebraica e nelle arti plastiche sono indiscutibili. Il verbo accadico Karābu (cfr. arabo mubārak=benedetto) implica l'atto di una benedizione (nel caso di una divinità) o della preghiera (nel caso del devoto), quest'ultimo senso tende a predominare.
    I Kāribu (participio presente di Karābu) sarebbero divinità subordinate che "mediano tra l'uomo e Dio."2 Nelle forme antropomorfe, presentano il devoto alla divinità. La loro forma tipica, però, è quello dei sedu e lamasu: uomo-toro e draghi, spesso rappresentati in coppia come custodi delle porte o degli emblemi sacri. Possono essere di entrambi i sessi e avere molte forme composite diverse: in generale sono intercessori e divinità tutelari e incarnano i poteri e le funzioni delle divinità da cui dipendono.
    Dhorme e Vincent sottolineano il carattere di mediatori dei Karābu e considerano le loro forme antropomorfe come anteriori di quelle teriomorfe (cosa che mi sembra improbabile). Tuttavia, il gesto tipico dei intercessori è quello di un orante, con una o entrambe le mani alzate e questo motivo appare già nell'arte preistorica, in cui troviamo gli uomini-uccello con le mani alzate come assistenti accanto a un simbolo sacro.
    Ovviamente non c'è alcuna contraddizione nella duplice funzione del guardiano e dell'intercessore, ovvero tra colui che esclude e colui che introduce; è il giusto compito di ogni guardiano o custode tener fuori il non-qualificato e ammettere il qualificato. Così nel mito di Adapa, Tammuz e Giszida sono i guardiani delle porte del Paradiso, e dopo aver interrogatorio Adapa lo introducono da Anu.3 I terribili uomini-scorpioni, “che abitano alle estremità della Terra, come guardiani del sorgere del sole e manovratori o difensori delle sue ali",4 esaminano Gilgamesh con intenzioni ostili ma essendo soddisfatti lo trattano gentilmente e gli danno consigli.5
    Il tipo dell'uomo-scorpione armato di arco e frecce che si trova sui kudurru sumeri, è uno degli archetipi del Sagittario, la cui ben nota rappresentazioni come arciere-centauro o con la coda di serpente o con due code: di equino e scorpione; queste code sono l’inconfondibile vestigia di queste forme archetipe dei difensori, il cui sguardo di basilisco è come quello delle Gorgoni così come quello di molte delle forme indiane dei Difensori della Janua Coeli, è lo sguardo della morte.

    1 P. Dhorme et L.H. Vincent, "I cherubini" Riv. Biblica 35 [1926], pagine 328-333 e 481-495. Cfr P. Dhorme. "Le dieu et la Deesse intercesseurs" in "La religion assyro-babylonienne", pagine 261 e seguenti. Si può osservare che le funzioni di tutela e di presentazione o l'introduzione dell'arco sia propriamente quella dei guardiani o custodi; nel poema epico di Gilgamesh i guardiani uomini-scorpione (marito e moglie), come protettori dell'Albero e sostenitori della rappresentazione del sole alato sopravvivono attraverso tutta l'arte babilonese e assira.
    2 Non ci può essere alcun dubbio che gli "Schutzgottheiten" [divinità protettrici] corrispondono da un lato ai "daimon" greci, intermediari tra l'uomo e la divinità di cui incarnano i "poteri", d'altro lato corrispondono ai Gandharva-rakşas indiani e proprio come di loro, anche i Karibu possono essere descritti come: leoni, tori, draghi, cani, arieti, sfingi, grifoni, scorpioni o "tempeste", in forma totalmente teriomorfa o parzialmente antropomorfa, maschili o femminili - che “went die Gōtter gnädig gesinnt sein, den schützen gute Geister; wem die Gōtter zurnen, der ist in den Handen baser Dämonen” (B. Meissner, Babylonien und Assyrian II, 1925, [page] 50). ["Sia che gli dei siano propizi, spiriti buoni che proteggono; sia che gli dei siano in collera, siamo nelle mani dei démoni”]
    3 S. Langdon, Sumerian Epic of Paradise, 1915, pages 42, 43.
    4 H. Frankfort, Seal Cylinders of Western Asia, page 201, cf. 156, 201 [and] 215, e piastre XXXIII, b, e. Rappresentazioni degli uomini-scorpione come assistenti del Sole, i sostenitori delle sue ali o difensori il suo pilastro, sono comuni sui sigilli di tutte le epoche, cf. Moortgart, Vorderasiatitische Roltsiegel, numeri 598.599 [e] 709, e le nostre figure 17-21 [pagine32-34].
    5 British Museum, Babylonian Story of the Deluge and the Epic of Gilgamesh, 1920, pages 50,51. Per lo studio di questa storia questo articolo è, in parte, una preparazione. Qui richiamerò solo l'attenzione sulla notevole rappresentazione del Sagittario come centauro dalla coda di scorpione mentre difende un simbolo sacro contro il grifone-eroe Zu, su un sigillo assiro di ca. 800 aC
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    Teofanie E SPECCHI: Idoli o icone?
    Henry Corbin



    La parola "idolatria" è stata spesso utilizzata per mettere in dubbio il ruolo dell'immagine mentale nel metodo della preghiera sciita. Ma l'uso di tale parola non trascura il collegamento tra l'immagine e il concetto di teofania? Sarebbe fondamentale e necessario un ritorno alla teoria della percezione immaginativa e al mondo dell'immagine, così come, come Sohravardi e gli Ishrâqîyûn , situano la fantasia, la virtus imaginativa, come "in-tra due"[entre-deux].(E)
    Da un lato, l'immaginazione può rimanere asservita alla percezione sensoriale; in questo caso le sue immagini non vanno al di là del livello di queste percezioni, nemmeno quando sono accostate per produrre mostruosità. D'altra parte, l'immaginazione può servire all'intelletto ed essere l'intermediario tra esso, cioè, il Sanctus intellectus e i sensi; allora le sue immagini sono metafisiche. In mistici e profeti è l'organo della conoscenza visionaria. Così, l'ambiguità dell'immagine deriva dal fatto che può essere sia un idolo (Gr. eidolon ) che un'icona (Gr. eikon ).
     Si tratta di un idolo quando la visione dello spettatore si fissa sull’oggetto. Allora è opaco, senza trasparenza, e rimane al livello da cui si è formato.
     Ma, una immagine dipinta o mentale, è un'icona quando la sua trasparenza consente allo spettatore di vedere attraverso un qualcosa al di là di esso e se “ciò che è al di là” può essere visto solo attraverso di essa. Questo è precisamente lo stato dell’immagine che è noto come una "forma teofanica."
    L'immagine dell’Imam, l'immagine dei Quattordici Immacolati, ha per i fedeli sciiti questa virtù teofanica. È altrettanto vero che la forma teofanica è uno specchio (ayineh , Lat. speculum).
    Tutti i nostri filosofi che hanno spiegato il senso teofanico delle cose sono tornati al motivo dello specchio, dando così all’Immaginazione speculativa il suo vero significato, il suo significato etimologico, che è lo stesso significato che Franz von Baader ha dato alla filosofia speculativa quando ha detto: " il senso di speculare è quello di riflettere "( Spekulieren heisst spiegeln ). [. . . ] Non dovrebbe essere troppo difficile da comprendere che, se esiste una luce unica, non significa che esista solo un oggetto che sia rivelato da quella luce; allo stesso modo, se l'essere è unico, non significa che vi sia una sola esistenza.
    L'unità trascendentale dell'Essere ( wahdat al-wojud ) è inseparabile dalla molteplicità degli esistenti che causa ad essere. Vedere in ogni esistente l'unico Essere che fa essere, vedere in ogni cosa luminosa la luce che la rivela, questa stessa nozione è una forma teofanica (Mazhar Elahi ) ed è proprio ciò che promuove l'immagine di un'icona, redimendola dalla sua degradazione ad idolo.
    Idolatria, al contrario, è vedere l'oggetto come se fosse in sé la luce che lo rivela e rende visibile; chiudendo l'accesso a qualcosa al di là dell’oggetto. Confondendo una cosa esistente, anche un Ens supremo con l'Essere assoluto che fa essere, ci si chiude l'accesso allo stesso modo; si confonde l'icona con l'idolo ma quando promossa al rango di icona, l'Immagine stessa apre la strada verso ciò che sta al di là, verso ciò che simboleggia. La distinzione che facciamo, grazie alle parole greche, tra "idolo" e "icona" non ha esatto equivalente nel lessico persiano, ma sicuramente ha un concetto equivalente. L'immagine elevata al rango di icona è l'immagine investita con la sua funzione teofanica ( mazhariya ). Allora tutto l'universo delle forme teofaniche diventa una immensa iconostasi (nella liturgia della chiesa cristiana orientale, la divisione di supporto alle icone forma uno spazio intermedio, un barzakh , "in-termezzo" tra il naos [o parte interna del tempio] e il Santo dei Santi, o santuario). [. . . ] L'idolatria consiste nell’immobilizzare se stessi davanti a un idolo, perché lo si vede come opaco, perché si è incapaci di discernere in esso l'invito nascosto che ci offre di andare al di là di esso. Di qui, l'opposto dell’idolatria, non consisterebbe nel rompere gli idoli, nel praticare una iconoclastia feroce volta contro ogni immagine interna o esterna; dovrebbe piuttosto consistere nel rendere l'idolo trasparente alla luce che lo anima. In breve, ciò significa trasmutare l'idolo in un'icona.

    Questo paragrafo da Henry Corbin La philosophie iranienne islamique aux XVII et XVIII siècles (Paris: Buchet-Chastel, 1981), pp 358, 363-64.

    (E)(intro-duzione).

    Edited by amarisia - 2/7/2015, 23:42
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    LA DIVINITÀ DEL MONTE BEGO (ALPI-MARITTIME)

    Lambert Jacques-Numa. La divinité du mont Bego (Alpes-Maritimes). Première approche d’après l’histoire comparée des religions. In: Revue de l'histoire des religions, tome 197 n°4, 1980. pp. 355-407.
    doi : 10.3406/rhr.1980.4991
    http://www.persee.fr/web/revues/home/presc..._num_197_4_4991

    Le incisioni di monte Bego, risalenti all’età del bronzo, sembrano ben evocare il «Dio d'acqua» della cosmogonia dogon, come è stata raccontata da Marcel Griaule, che scende dal cielo sulla terra in un ar-ca, dove porta tutto ciò che vive, così come le varie tecniche necessarie alla sopravvivenza dell'uomo, che poi insegnerà loro attraverso la parola, compreso l’agricoltura. Si manifesta qui come un Dio toro che è allo stesso tempo un Dio-pugnale, questo esempio senza pari di oplolatria si sta lasciando indietro un primitivo culto della pietra e della montagna.
    Le anime dei morti vengono qui a chiedere, come sulla montagna che domina il paese dei dogon, una provvista d’acqua per il loro lungo viaggio nell'aldilà e san Michele, tradizionale protettore della contea di Nizza, dimostra che il suo predecessore pagano è antropomorfizzato nel mercurio gallico: un Dio psicopompo che assume l’aspetto guerriero di Marte o Ercole (Ogmios) ma che rimane una divinità del Toro e della Roccia, portatore della "parola" e inventore della scrittura celtica (ogam).
    Il monte Bego è una montagna delle Alpi del sud, innevata dieci mesi dell'anno, troneggia su Ventimiglia e con orgoglio domina la valle del Roya. La sua peculiarità è di essere circondata da valli (Valle del-le meraviglie, valle di Fontanalba) offrendo sulla superficie lucidata e più sovente ocra delle sue rocce, decine di migliaia di incisioni, che sono comunemente attribuite all’inizio dell'età del bronzo (1800 A.C. circa).
    La prima idea che viene in mente è che fossero opera dei pastori e, infatti, la transumanza stagionale continua lì ancora oggi, anche se priva dell'onere simbolico che doveva avere quando la rigenerazione dei tori suggeriva naturalmente quella degli uomini.
    È noto tuttavia, che l'incisione della roccia, come la pittura, inizialmente era un segreto. Solo i perso-naggi con carattere di natura religiosa possono eseguire tali figure. Così si considerato generalmente che il monte Bego e tutta l'area delle incisioni avesse il valore di un santuario a cielo aperto.
    «È un dato di fatto, - ha scritto Nino Lamboglia, – che sembra ormai acquisito da tutti: è che la grandio-sa dimostrazione di arte preistorica inscritta sulle pendici del monte Bego abbia un significato religio-so... È un culto topico del tipo che spesso, nella preistoria, è stato fatto sulla cima delle montagne».
    È possibile dire di più interrogando queste incisioni? L’archeologia da sola non può fornire la risposta ma la storia comparata delle religioni può aiutarci a spiegare alcuni degli elementi che ci porta propo-nendoci un duplice oggetto di ricerca: si dovrebbe trovare in questi luoghi la traccia di un qualsiasi epi-fania divina? Possiamo scoprire qualche indicazione di quello che speravano gli uomini che le scolpiro-no?

    *
    * *


    La prima cosa che colpisce nella valle delle meraviglie, è il sito. Sappiamo che i primitivi sono straordi-nariamente sensibili ai siti: tutto ciò che appare anomalo, eccezionale in natura, immediatamente cat-tura la loro attenzione. Vedono la presenza misteriosa di forze soprannaturali. In Cina esisteva una scienza sui siti, la geomanzia, che aveva i suoi insegnanti e i suoi studenti, con un corso di studi di pa-recchi anni.
    Ora, il sito delle meraviglie è impressionante, un caos di due elementi: acqua e roccia, un groviglio di piccoli laghi e rocce. Infatti, una simile composizione del paesaggio è trovata in molti altri luoghi. Spe-cialmente in Africa, il Sahel, è quella del luogo alto dei Dogon: la depressione dei laghi Débo, invasa dalle acque del Niger al tempo del diluvio, tutto dominato all'inizio da colline rocciose a sud-est, di di-mensioni variabili, a volte scarpate molto ripide, alcune delle quali formano isole circondate da acque profonde.
    Le "rocce" di questa regione del lago sono testimoni della discesa dal cielo e dell'impatto sul territorio dell'arca del "dio dell'acqua," il Nommo". Il più grande, il Gourao, è, dicono i Dogon, come il cielo, dove lo scafo è uscito e disceso. »
    "In cima, – specificano Griaule e la M.me Dieterlen – una tavola di pietra circondata da pietre in piedi - le stelle- che rappresentano l'arca durante la discesa nel cielo. La roccia è anche costellata di pietre di varie dimensioni in piedi, dai dolmen al punto estremo che scende verso il lago a ovest. "
    L'arca era atterrata nei pressi di una grotta chiamata Kaba "cielo nuvoloso" o più comunemente ka, da cui si formò uno scavo che divenne il primo mare (il primo lago).
    In una grande grotta, "una serie di dipinti in ocra rossa sono il Nommo e la sua gemella dapprima in cie-lo e poi sulla terra, e gli antenati dell'arca". Per questo nell'Arca celeste, il dio in primo luogo portò la vita, la generazione, gli esemplari di tutti gli esseri viventi, vale a dire, naturalmente, come dell'arca di Noè, di tutte le specie animali e, soprattutto, gli otto antenati mitici da cui si ritiene che discendano i Dogon.
    C’è un'altra grande roccia, i cui vasti fianchi sono costellati di grotte che portano un gran numero di pit-ture rupestri in ocra rossa, Soriba, dove c'è l'impronta lasciata dal piede del Nommo mentre esce dell'arca per prendere possesso del suolo. La traccia dell'impronta sul suolo del piede del Nommo an-drebbe confrontata con l'incisione di un "sandalo di rame", com’è riprodotta in rilievo sulla facciata di alcuni santuari.
    Il Nommo aveva quindi marcato il suolo con un triplo gruppo di sette tratti che assemblavano presente, passato e futuro:
     sotto il tallone, questi segni significano "il mondo è arrivato,"
     sotto la volta "il lavoro è compiuto"
     sotto le dita dei piedi "la parola verrà "
    La parola che uscirà dalla bocca del Nommo e che gli uomini ascolteranno, la Parola (il Verbo), è sino-nimo di" conoscenza "," scienza ".
    Ricordiamo che è il piede sinistro è dunque, si può dire, quello di arrivo. Quando il Dogon semina, schiaccia con il piede sinistro la terra del foro dove è stato gettato il grano.
    Non è il piede sinistro del “dio dell'acqua” che scende dell'arca che è raffigurato come gran piede umano su un fianco delle "Ciappe" (lastre di pietra) di Fontanalba, isolato in mezzo alle solite incisio-ni?
    L'arca conteneva anche altre cose oltre gli antenati, tutti gli animali e tutte le piante. Conteneva non solo le persone, ma modi di essere , le tecniche, tutte le prime tecniche che gli uomini dovevano ap-prendere per organizzare la loro vita sulla terra, prima di tutto la tecnica della tessitura, con un tessito-re e il suo mestiere , ma anche ballare, camminare, parlare, etc.
    C'era anche l'agricoltura, rappresentata sull'arca da un campo coltivato, il campo della famiglia primiti-va che sarebbe stato la matrice di quelli sulla terra, con quattro file di cinque solchi ciascuno corrispon-dente ai quattro antenati maschi, l’agricoltura Dogon è fatta dagli uomini.
    Degli altri progressi ancora sconosciuti sarebbero venuti in seguito alla conoscenza degli uomini e mo-dificheranno il mondo. La rivelazione avviene lentamente, prima come una nebbia, poi bruscamente, come la pioggia e il vento. I Dogon quindi distinguono le invenzioni (tecniche) delle "parole" succes-sive.
    Dopo la discesa dell'arca, altri esseri civilizzatori discesero isolatamente sulla Terra e, in primo luogo, il Primo Antenato, che era risalito in cielo e che era tornato portando con sé il fuoco che non aveva esita-to a rubare al Nommo, il fabbro del cielo, sotto forma di brace e ferro incandescente. Con il fuoco della fucina , la mazza (maschile) e l'incudine (femminile), con la forgia delle armi, arco e frecce e scudo di ferro, fu lui a costruire con una pelle un soffietto di pelle brandendolo sopra la sua testa per protegger-si durante il volo dai tizzoni fiammeggianti (fulmini) con cui il Nommo derubato bombardava il ladro.
    Lui poteva scendere "lungo l'arcobaleno". Nel corso di questa discesa, anche se con un aspetto già umano, aveva ancora "quattro membra flessibili come i serpenti, come le grandi braccia del Nommo", ma per lo shock subito toccando il suolo "alla fine dell’arcobaleno" la mazza e l’incudine gli spezzarono le braccia e le gambe all’altezza dei gomiti e delle ginocchia, che non aveva prima. Quindi ha ricevuto i giunti necessari per la forma umana che doveva essere dedicata al lavoro: "In considerazione del lavo-ro, le sue braccia si piegano. Infatti, le membra flessibili erano inadatte ai compiti della fucina e dei campi. Per modellare il ferro caldo e scavare la terra gli serviva la leva dell'avambraccio. Prendendo contatto con il suolo, l'antenato era pronto per la sua opera civilizzatrice" , l'agricoltura in particolare è strettamente dipendente dalla fucina: senza il fuoco della forgia, senza il ferro, non ci sarebbe stato al-cun raccolto da metter via e, giustamente, il Fabbro ha portato nella mazza le spighe di grano per se-menza.
    Così è lui è arrivato sulla Terra dove "delimita un campo quadrato di dieci volte otto cubiti, orientati come la terrazza da dove è disceso e le dà le misure di una parte unitaria. Questo campo è stato diviso in 80 × 80 quadrati di un cubito distribuiti tra le otto famiglie dei discendenti dagli antenati che cerca-vano il loro destino sulla Terra". I Dogon hanno infatti continuato a farlo : il campo di otto cubiti qua-drati è circondato da argini che costituisce una scacchiera e, alla sinistra della porta dei loro santuari to-temici, l’impatto dell'arca del Nommo sulla Terra è rappresentata da una serie di rettangoli o quadrati che si collegano ai quattro lati, o quattro direzioni cardinali, all'arca posata sulla terra e orientata .
    Se riconosciamo in questa griglia regolare il principio della centuriazione romana e molto prima di lei, la misurazione dei lotti di terra con la coda degli arpedonaptiE egiziani, in una parola l'origine di geo-metria, scopriamo così l'equivalente di quei "reticolati e figure geometriche", molto grossolani, che non rappresentano meno del 20% dei motivi della Valle delle Meraviglie, che Glarence Bicknell aveva già identificato come campi circondati da confini di pietra, quali quelli che contemplava dall’alto, la sotto, nelle valli della regione .
    È questo il punto quindi, l’omologo del Fabbro Dogon che è raffigurato su di un sito elevato, ai piedi della falesia del monte delle Meraviglie, con una testa rotonda e il corpo ridotto ad un’immagine di un largo tratto la cui parte terminale è cancellata dalla sovrapposizione la metà superiore di una bel retico-lato? Questo dettaglio non indicherebbe l’aiuto del primo antenato sceso dal cielo, della tecnologia dell’agricoltura sotto forma di campi ben definiti e accostati a formare un rettangolo diviso in, a quanto sembra, in quaranta riquadri regolari, dieci sui lati lunghi e quattro sui più corti?
    Il fatto che la figura antropomorfa e il reticolato abbiano datazioni o stili differenti non sembra un ostacolo a questa interpretazione. Abbiamo anche lo stesso, alla Valle delle Meraviglie, un pugnale che si sovrappone ad un reticolato e non sembra casuale: le monete dei Galli Unelles (Gotentin) mostrano sotto il cavallo che occupa la superficie più estesa, una larga spada dalla cui impugnatura parte un cavo lungo e ondulato che termina prima della testa dell'animale con un ciuffo.
    L'arma genera così i cereali attraverso l'acqua (la linea ondulata) e precisamente nell'incisione antro-pomorfa del monte delle Meraviglie, parzialmente sovrapposta al reticolato, c’è rassomiglianza per in-tendere una sorta di ascia o mazza fissata al lato sinistro della testa, o più precisamente, il cerchio che circonda e si estende su entrambi i lati del "corpo" con "braccia" a zigzag che terminano con mani con le dita allargate. Quindi stiamo parlando «dell'Uomo con le braccia a zig-zag» o Pantin (pupazzo). Essi simboleggiano fulmini o meglio l'acqua, gli zig-zag sono adatti alla rappresentazione di un "dio d'acqua" o che scende dal cielo sulla terra in modo serpentiforme.
    Ma che arma è quella incisa? Di armi raffigurate e in un gran numero di rappresentazioni, sul monte Bego sono di solito pugnali. Alcuni parrebbero coltelli piuttosto semplici. In ogni caso, all'inizio dell’età del bronzo erano diffusi piccoli pugnali a lama triangolare ancora molto simili ai pugnali di ra-me, fino alla fine Bronzo Medio la tendenza generale consisterà nell’allungamento delle lame, all’inizio del Bronzo finale (circa XIII secolo aC.), quasi ovunque in Europa la spada ha già sostituito il pugnale .
    Nella Valle delle Meraviglie, questo non è ancora successo: non ci sono incisioni che ricordano chiara-mente la forma delle spade. Tuttavia nel Bronzo medio la regione e nello stesso periodo in tutta l'Eu-ropa, in particolare la dove la civiltà di ÚněticeW era nella sua fase finale o quella dei tumuli al suo ini-zio, ha conosciuto come incisioni, pugnali curiosi con una lama dai bordi sinuosi .
    Ora, qualcosa di simile è accaduto molto più tardi, e lontano dall'Europa nell'evoluzione del pugnale kris malese il cui prototipo risale all'età del bronzo in Indocina e la cui lama diventa ondulata (verso la fine del XIII secolo dC), per esempio, per rappresentare i serpenti, i Naga , serpenti di forma umana che l'induismo situa sul fondo dei laghi e da cui fa venire i principi.
    Sappiamo che i kris, ormai indispensabile complemento costume giavanese, è una pezzo sacro e ance-strale, un pezzo d’antichità, quasi senza precedenti nella gerarchia dei valori indonesiani. È rispetto-samente conservato in casse di legno progettato apposta, sdraiato su un cuscino ricoperto di cotone bianco e avvolto in velluto o seta.
    Il kris è infatti dotato di poteri soprannaturali, che possono essere malefici come benefici e ad esso conferiti dal fabbro durante la fabbricazione, questi non è un artigiano ordinario ma un maestro onora-to, un sapiente nelle questioni spirituali e religiose, l’Empu . Il manico è spesso scolpito a rappresenta-re convenzionalmente vecchio Divinità indù .
    Dopo tutto, il nostro Medioevo rivela, sotto rivestimento cristiano, cose molto simili. Pensate alla spa-da di Carlo Magno e di Rolando: "La spada, – ha scritto il sapiente editore della Chanson de Roland, Léon Gautier ,– è in qualche modo una persona, un individuo. Le si dà un nome: Gioiosa è quella di Carlo Magno, Alsazia quella di Turpin, Durlindana quella di Roland, etc. "Ed è generalmente conservata per tutta la vita.
    L’impugnatura contiene le reliquie dei santi, quella di Gioiosa, che è d'oro, parte della lancia di ferro che trafisse Cristo; quella di Durlindana, un pezzetto dei vestiti della Vergine.
    Ma qui è ancora meglio: "A volte il pomo è di cristallo, cioè in cristallo di rocca," con ciò si perpetua in Europa una tradizione probabilmente molto antica in quanto si è rinvenuta in Creta, a Mallia, un bella spada di bronzo con l’impugnatura dorata con un pomolo di cristallo .
    In India, ben prima del pugnale e della spada, Indra, il più grande e più forte degli dei vedici, il dio di tutte le vittorie militari, identificato "tuoni, vento ed aria", la cui forma manifestata è il toro, era armato con il vajra che si è pensato fosse una mazza da lancio, ma che dovrebbe essere tradotto come "un ful-mine."
    In realtà, si dice: "fulmine-diamante", e il vajrasana è la "sede di diamante", dove il Buddha è seduto quando riceve l’illuminazione , da cui si comprende così il principio: la luce risplendente della pietra.
    E 'solo una differenza di età, di maturazione, l'autore indiano del «Libro delle pietre preziose» (Jawâhir- Nameh) distingue il cristallo dal diamante . Basti dire che troviamo in questo la roccia nella sua forma più dura, la più pura, la più bella, una "pietra luminosa" che si è staccata dal cielo e che, anco-ra oggi, gli australiani credono che il cristallo di rocca, o i meteoriti caduti dal cielo siano fulmini.
    Il vajra è ritualmente rappresentato come una "sorta di piccolo manubrio con le estremità traforate" : più rudimentale, è senza dubbio questo il piccolo manubrio che è talvolta inciso sul Monte Bego.
    Nella tradizione cristiana del Medioevo, è un angelo che «ha regalato la famosa Durlindana a Carlo Ma-gno per il miglior capitano del suo esercito». Non c’è da cercare altrove il principio dell’addobbo per spatam che veniva fatto ai cavalieri. Ciò che viene così trasmesso al nobile, è ciò che Dio aveva dato al re e l'arma è il divino simbolo materiale della sovranità sulla Terra, questa arma che ha procurato al suo detentore protezione e una forza ben superiore a quella che un uomo può aspettarsi da se, è stata l’oggetto di un culto di adorazione come dimora del dio o come un dio stesso. Questo culto oplolatra è estremamente antico e trascurato dagli storici delle religioni.
    Non è sorprendente, ma Léon Gautier ha scritto: "I nostri eroi amano la loro spada, parlavano con lei come con un compagno intelligente, come ad un essere vivente e ragionevole ...".
    Del kris, a volte, si dice, che a volte viene posto sotto il cuscino per ricevere le influenze benefiche. Questo dettaglio ha più senso di quanto si possa credere.
    Nell’Irlanda celtica, dove, secondo un'antica tradizione tramandato nella storia della Seconda Battaglia di Moytura, alcuni pagani adoravano le loro armi, Ogma il Dedannan trova dopo la vittoria sul campo di battaglia Orna, la spada Tethra di un re FomoriW. Egli la sfodera e pulisce. "Così – la storia continua, – la spada racconta tutto ciò che era stato fatto da lei, come era costume delle spade una volta, quando ve-nivano sguainate, enumerare le azioni che erano state compiute da loro." Di qui anche il deposito di fascino nelle spade, un valore che rimpiazza le reliquie.
    "Questa la ragione per cui i demoni erano soliti parlare con le armi in quei tempi, era che le armi erano allora adorate dagli esseri umani". Ancora nel secolo XVI, gli irlandesi quando andavano a combattere facevano con la loro spada una croce sopra la terra e l’affondavano per ottenere la vittoria.
    Tale culto riflette l'usanza del giuramento sulle spade. Questo giuramento, molto comune, vincolava l'irlandese quanto il giuramento per gli elementi, «perché, – si dice – , i demoni avevano l’abitudine di parlare con loro attraverso le armi e da lì deriva che il giuramento sulle armi era inviolabile. Così ritro-viamo tra gli europei continentali tali tenaci credenze».
    Ma, non cadiamo in errore: ciò che i cronisti cristiani chiamano demoni erano dei pagani e giurare per la spada è pari a giurare per i loro dei.
    Perché questo è il dio civilizzatore, per i Dogon il Nommo sceso dall'arca con gli antenati ancestrali, ai quali è attribuito di aver parlato per la prima volta e di aver insegnato la parola.
    Gli antenati, dicono i Dogon, sono stati creati senza parola. Avevano tutti gli organi del corpo umano ma erano "vuoti" = secchi: "I polmoni pendevano come spugne asciutte lungo la spina dorsale, in attesa che l'acqua e il respiro e della parola che doveva venire." "L'uomo senza parola era infelice e non po-teva realizzare alcun progresso."
    Ma il Nommo stesso aveva ricevuto da Amma, il dio creatore supremo in cielo, la parola. Sceso dall'ar-ca, il Nommo si era trasformato in cavallo e tirò l'arca, trasformata in carro, fino ad una depressione, bunno, che era testimone sulla Terra dell'apertura del cielo da cui Amma aveva fatto scendere l’arca . Nei santuari, «una piccola statuetta in legno scolpito o in ferro rappresenta il cavallo che ha tirato il car-ro. Un cavaliere, simbolo di Amma, è talvolta collocato accanto o sul cavallo, simbolo del Nommo. Così la parola sô... che designa il cavallo ... significa, secondo una etimologia popolare, il potere ... perché la forma assunta dal Nommo connota forza, la corsa degli animali, estensione del suo potere sulla Terra», la sua irresistibile espansione su di questa. "Secondo un'altra etimologia, il termine viene avvicinato sq:"parola", perché si dice che «con il carro, il cavallo (Nommo) ha portato la "parola"».
    Cinque giorni dopo l'arrivo del l'arca cadde la prima pioggia. Questa riempì la depressione, dove l'arca-carro galleggiava come un’enorme barca e il Nommo torna nell’acqua, che era la sua sostanza. Ci fu dunque nommo o:"Nommo dello stagno", di cui non si pronuncia il nome, ma di cui si parla chiaman-dolo "Maestro delle acque." È qui che "tesse" la prima parola: "Ottiene la sua parola attraverso una tecnica, che potrebbe essere alla portata degli uomini; mostra quindi l'identità dei gesti materiali con le forze spirituali .... "
    Uno degli antenati, il settimo, Binu Seru (="il testimone" Binu, Binou si può rendere con totem), il cui genio era molto femminile, ha cominciato a percepire il discorso del Nommo: "La parola è arrivata co-me un vento, è entrata nelle sue orecchie, è scesa nel fegato dove si è seduta ed è uscita attraverso la bocca."
    Con la sua bocca, Binu Seru, diventa il "Maestro della Parola", trasmessa poi gradualmente a tutti gli uomini, a cominciare dagli altri antenati, una parola che è stata diversificata in conoscenza specializza-ta.
    Ora torniamo al pugnale delle Meraviglie per estasiarci di fronte alla più famosa e probabilmente la più significativa tra le incisioni antropomorfe, il "capo di tribù" o "l’orante". Il fatto che questo è un "roccia incisa che presenta un aspetto di organizzazione volontaria" e, soprattutto, che questo tipo di stele approssimativamente triangolare è bloccato sopra il fiume alla sua uscita dal lago delle Meraviglie nella parte superiore della valle , attira l’attenzione: il torrente si unirà ai lunghi laghi per formare, con gli altri e con altri laghi, le acque della Miniera e poi la Beonia, che si getta nel Roya a San Dalmazio di Tenda.
    Ora, per i Bambara, l’acqua che si diffonde sulla terra è il dio dell'acqua stesso. Così il corso di Niger rappresenta il suo corpo e il Faro, uno dei nomi dati a livello locale a quello che i Dogon chiamano Nommo, ha la testa nel Debo, il suo braccio destro è il Bani, la sua unica gamba è il fiume stesso, pro-prio nel posto dove c'è il sesso. Un sesso alternante perché Faro è sia maschio che femmina e, cam-biando riva nella sua marcia, "sinuoso, come l’acqua, che purifica e vivifica ", cambia sesso passando da maschio sulla riva destra a femmina sulla riva sinistra. Le località che si succedono da monte a valle (fa-ro tyn) e che sono oggetto di rituali importanti sono altrettanti passaggi mitici di eventi legati talvolta alla moltiplicazione delle nascite e lo sviluppo delle famiglie, a volte la propagazione della coltura del grano. Faro è, in effetti, il procreatore e non c'è motivo di cercare altrove la ragione di un mito, così dif-fuso nei tempi antichi, il fiume dio antenato di un particolare gruppo etnico, come, per esempio, Ione, il padre degli Ioni. Il faro lyn testimone della sua discendenza. Così, a la faro tyn del capo che forma il monte Gourao il Faro del luogo è chiamato ga, un termine che significa la "madre di tutti i viventi”.
    Il grande pensiero Dogon è che la progressione dell'acqua e del Dio d'Acqua sulla Terra sia per la purifi-cazione e la parola intende appunto la vivificazione: l'impuro, infatti, è il cadavere che ha un cattivo odo-re, che è la morte e questa è la savana, secca e sterile, che non produce nulla; purificare è dare vita a uomini, animali e alle piante, dar loro crescita. Faro è stato inviato come «Maestro dell’acqua» sulla Terra per questo ed è a questo fine che il dio supremo gli ha "conferito la sua parola". Questo Dio, pen-sato in erogazione costante, si era allungato a spirale nel tempo a partire dalla sua stessa sostanza, dal punto o "bolla" (kuru) in cui era “ammassato”, per affidare finalmente tutte le cose a Faro in forma di parole o verbi e per il beneficio degli uomini.
    "Se non avesse nominato gli oggetti, la creazione non sarebbe stata possibile."
    Il Faro e il Fabbro, che in realtà sono un tutto, all’inizio invisibile, possedevano la tecnica (la parola) e dovevano apparire per renderla intelligibilie. I Dogon schematizzano la creazione del mondo con del-le rappresentazioni grafiche e con figure geometriche la cui straordinaria complessità scoraggia l’analisi.
    Alcuni riti agricoli simboleggiano così le fasi successive della creazione, che a volte sono rappresenta-te nei campi stessi. A novembre, tutta una simbologia riflette i passaggi della nascita di un fiume, il Dyaka, con le mandrie di bovini che vanno transumanza precedute dai loro pastori.
    Dobbiamo, come si vede, tornare sempre all’acqua, alla residenza principale del “Dio d'Acqua”. Tra i Dogon si dice che «quando, a seguito di forti piogge, i torrenti crescono nelle valli, il Nommo è la "testa dei torrenti". Il fragore dei fiumi è dovuto alla sua presenza che solleva anche una leggera nebbia che si estende a volte sopra gli stagni». «Il suono dell'acqua, invisibile in un primo momento, che si intensi-fica e diventa il rumore del torrente che scorre» è il numero sette "l’otto esce da ciò ed è la parola."
    Allora il capo tribù, come è piazzato sulla parte superiore della Valle delle Meraviglie, non è forse l’omologo di Faro o Nommo?
    Un enorme pugnale è bloccato obliquamente verso il lato sinistro della testa. La prima idea che viene in mente è, naturalmente, che è stato colpito e certamente non si può escludere un sacrificio umano: i Bambara una volta sacrificavano gemelli ad ogni faro tyn che segna l'azione di Faro e del suo ruolo nel confronti dei semi e della procreazione, in modo che "si estende la parola e si moltiplicano le nascite gemellari, che sono per loro una benedizione. Tuttavia il capo di solito non è parte del corpo che vie-ne pugnalata. Piuttosto, credo che il Dio d'Acqua stia ricevendo la parola del Dio celeste nell’orecchio sinistro (un fulmine?).
    Sull'altro lato della lastra, troviamo un reticolato che evoca una divisione regolare dei campi e sul petto del personaggio, si estende un magnifico bucranio, che ricorda che il 60% delle incisioni monte Bego ha per oggetto bovini, a volte con corna tortuose, a volte imbrigliati per due o quattro per tirare un ara-tro guidato da un personaggio.
    A che scopo tali rappresentazioni in un luogo che sicuramente non è mai stato propizio all’aratura, se non per uno scopo cerimoniale? Ispirandosi dalla cosmologia Dogon - che, per inciso, non conoscono l’aratro e coltivano con le zappe - l'aratro trainato dai buoi è la "parola", il progresso tecnico che "purifi-ca" la terra, vale a dire, trasforma più rapidamente e nel modo più profondo possibile, la terra arida in terreni coltivati. L'invenzione dell'aratro era così divina ed è probabilmente la stessa tradizione, antica come lei, che S. Ireneo aveva in spirito nell’interpretazione, da cui estraiamo tutto il sovraccarico esca-tologico cristiano, di un testo di Isaia quando scrisse:
    "... Nero Signore lui stesso è colui che ha fatto l'aratro e portato la falce: questo si riferisce alla prima se-mina dell’uomo...; il Verbo solido ...per pulire la terra incolta. "
    Per quanto riguarda i buoi che tirano l'aratro e, più in generale, le immagini tauriformi, che Lamboglia aveva già poste al centro del culto del Monte Bego. "L'uso della transumanza pastorale dove Tenda e Briga sono tra i centri più attivi e più antichi ancora oggi," non sembrava sufficiente a spiegare l'incre-dibile profusione di "corniformi" ma segnalando l’ampia espansione del culto del toro nelle civiltà del Mediterraneo e del Mar Egeo, se ne può affermare il carattere mediterraneo, non indoeuropeo, della religione del Bego.
    Il libretto guida alla Valle Meraviglie riprende il tema: il monte Bego, che domina la valle del Roya è e resta il classico assemblatore di nuvole che scatena tempeste importanti, il dio non poteva che essere "il dio della tempesta, che brandisce la folgore, il toro celeste delle vecchie mitologie mediterranee."
    Noi tutti sottoscriviamo più che volentieri che il toro si afferma così, senza la necessità di sottolineare qui la sua stretta correlazione con l'acqua.
    Un altro aspetto del problema merita attenzione: l’ossessionante dualità delle corna nelle incisioni del Bego non ricoprono qualcos’altro? L'uomo primitivo è un osservatore ammirevole (e imitatore) della morale degli animali. Non poteva sfuggire che la natura ha dotato il toro maschio ma anche i cervi, le capra o i montoni, con questa doppia arma che usa al momento del calore, per conquistare con la forza sui suoi rivali, la femmina che si fa fecondare. La forza fisica contenuta nelle sue corna si confonde con la sua forza riproduttiva, ebbene è quello il mezzo, il motore, la vera sorgente divina di ogni forza, poi-ché è da questo che nasce la vita. La ripetuta associazione "cornuto-pugnale" ha quindi una causa principale.
    L’oplolatria sembra sempre essere stata accompagnata dal culto degli animali, se giudichiamo dai resti rari e ampiamente dispersi, che ci ha lasciato l'antichità.

    continua
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    Denunciando "l'abuso nella formazione universitaria, delle presunte scienze esatte" e negando a queste scienze un "qualsiasi valore educativo," ci sembra davvero che René Johannet(1) sia andato troppo lontano, forse, da un lato, non si rende sufficientemente conto del posto che occupano le scienze nell’insegnamento delle scuole secondarie in generale, d'altra parte, si mostra abbastanza ingiusto nell’ignorare il ruolo che possono e devono svolgere nello sviluppo intellettuale.
    È un punto di vista, per lo più sbagliato, che il più delle volte oppone la cultura scientifica e quella letteraria in modo incondizionato, come se fossero incompatibili, invece di cercare di armonizzarle e integrarle l’una all'altra ed è soprattutto da questo che soprattutto deriva, a nostro avviso, la deplorevole situazione dello stato attuale dell’istruzione secondaria. Ci riferiamo all'obbligo degli studenti di specializzarsi troppo presto e in un'età in cui, salvo casi eccezionali, purtroppo, i ragazzi non hanno una chiara consapevolezza dei loro gusti o capacità.
    Il signor Johannet trova che ci siano molte carriere in cui le scienze matematiche o fisiche siano del tutto inutili, è vero, ma possiamo anche rispondergli che ci sono molte altre carriere in cui è esattamente la stessa cosa per il latino, la letteratura o la storia. È a partire da questo punto di vista troppo strettamente utilitaristico, "pragmatico" se si vuole, che si è stabilito il frazionamento del "secondo ciclo" di studi; ma non è detto che questa sia una scelta eccellente: come è possibile, infatti, che gli studenti che entrano nelle scuole secondarie, cioè a quattordici anni o giù di lì, siano saldi e sicuri sulla loro scelta di una carriera futura?
    La maggior parte non è ancora in grado di decidere in autonomia ed entreranno nella sezione che corrisponde ai progetti per cui i loro genitori li hanno allevati; ma quanti si pentiranno di scelte affrettate accorgendosi troppo tardi che si sbagliavano e che le loro reali capacità erano molto diverse!
    Troppo tardi, diciamo, perché ci sono delle lacune che sono molto difficili da superare; e (questo è dove volevamo arrivare), se, in quattro sezioni, ce ne sono due in cui si studia forse troppo la scienza, ce ne sono altre due in cui non la si considera certamente abbastanza.
    In secondo luogo innanzitutto, gli studenti delle sezioni A e B (ci scusiamo se inseriamo questi dettagli tecnici) hanno un’ora di matematica alla settimana, questa è un’ora completamente persa perché non c'è alcun vantaggio da guadagnare da un insegnamento così ridotto. Inoltre, questi stessi studenti quando arrivano alla filosofia, non hanno la minima nozione della fisica o della chimica ed anche se si presume che abbiano appreso alcune nozioni base sulle scienze naturali nel quinto o sesto anno, hanno avuto il tempo di dimenticare tutto. Il programma della classe di filosofia è esagerato in ciò che riguarda le scienze fisiche e naturali e si possono vedere quali difficoltà trovino gli alunni medi nel seguire questa classe dove tutto è interamente nuovo, ivi compreso la filosofia stessa, senza contare che, passato l'esame, si affretteranno a dimenticare tutte queste cose di cui, un assorbimento troppo veloce, non ha permesso nessuna vera assimilazione.
    Quest'ultima osservazione ci porta a sottolineare uno dei più grandi difetti dell’istruzione secondaria: Johannet vorrebbe giustamente che questo insegnamento preparasse il più possibile alla "vita reale", mentre così sembra piuttosto che servi solo per preparare agli esami. Se volessimo dire tutto il male sulla redazione dei programmi e su tutto il sistema di esami come attualmente concepito e praticato (e non solo in relazione all’istruzione secondaria, ma anche nel settore dell'istruzione superiore) finiremmo molto lontano.
    Vogliamo semplicemente notare, a questo proposito, l'impressione che abbiamo sempre provato in un corso di filosofia: la stragrande maggioranza degli studenti non ha né il gusto né l’attitudine per la filosofia, sono lì soltanto perché "sono costretti a farlo” perché altrimenti non potrebbero passare il grado del bachelor, che devono ottenere; ma sarebbe una grande illusione crederli capaci di interessarsi seriamente, soprattutto perché pensano che, alla fine, non avranno mai alcuna possibilità di occuparsene e nemmeno “parlarne”. Così ci chiediamo se non sarebbe meglio riservare lo studio della filosofia nel campo dell'istruzione superiore, come viene attuato nella maggior parte dei paesi stranieri; questo studio, se vogliamo farlo diventare veramente vantaggioso richiede una certa maturità della mente e, inoltre, non necessita di disposizioni meno speciali della scienza, con cui ha molti più rapporti di quanto sembra pensare il sig Johannet.
    Gli studenti che in precedenza hanno ricevuto unicamente una formazione esclusivamente letteraria, sono i più mal preparati. Questo si vede bene quando si riuniscono, per le parti comuni del programma, gli studenti della classe di filosofia e quelli della classe di matematica: per tutto ciò che riguarda la logica, quest’ultimi sono, in genere, molto più preparati ma alla sola condizione che l'insegnante sappia interessarli. Cosa che non accade quando se ne occupa qualcuno che non conosce nulla della scienza, caso malauguratamente fin troppo comune e non possiamo sorprenderci quando troviamo errori grossolani in questo senso nei libri di testo di filosofia più rinomati.
    Noi, confessiamo, non capiamo Mr. Johannet quando dice che "storia, latino, greco, letteratura e filosofia formano una specie di blocco di aspirazioni non scientifiche." Da parte nostra, non vediamo esistere una stretta solidarietà tra la filosofia e le altre materie elencate e neanche il motivo per contrapporre la scienza e la filosofia, forse che la maggior parte dei filosofi non sono stati anche scienziati?
    È vero che dobbiamo fare delle distinzioni, perché siamo abituati a raccogliere sotto il nome di filosofia, elementi disparati; al signor Johannet, per il suo "blocco non-scientifico" possiamo lasciare la morale e gran parte della psicologia, ma questo è tutto. D'altra parte, se siamo del parere, forse singolare per un professore di filosofia, che ci sarebbero più vantaggi che inconvenienti a scostare la filosofia dell'insegnamento secondario, faremo pertanto un'eccezione per il suo ramo più "scientifico", vale a dire, per la logica: a qualsiasi carriera saranno destinati i giovani, sarà sempre meglio saper ragionare correttamente, sicuramente alcune persone ragionano bene anche senza conoscere esplicitamente le leggi della logica ma è pur vero che è meglio, per tutte le cose essere consapevoli di ciò che facciamo e di come lo facciamo.
    È per un servizio dello stesso ordine che la matematica ci sembra eminentemente adatta dal punto di vista dell'educazione generale; c'è interesse da questo punto di vista, a rapportare il più possibile la logica e la matematica, che ci sembra piuttosto come principio e la sua applicazione più immediata. Di solito, gli studenti che entrano nel corso di filosofia non sanno analizzare e hanno solo idee molto vaghe, le loro parole non riescono neanche quasi a rendere interamente le idee. Questa "verbosità" è lo sfortunato risultato di una cultura esclusivamente letteraria (non abbiamo mai saputo, diciamo per inciso, perché a una cultura di questo genere siamo abituati a dare il nome di "cultura generale") e i più brillanti studenti delle classi di lettere spesso diventano "filosofi" molto mediocri.
    Così vedremmo volentieri elementi di logica introdotti nel programma delle classi come la quarta e la terza; questa educazione sostituirebbe vantaggiosamente quella della "morale pratica", con il risultato evidente di competere con l'istruzione religiosa fatta dal cappellano e spostare in questa, con il pretesto di duplicazione, molti degli studenti che altrimenti continuerebbero a seguire le sue lezioni. È vero che questo risultato è probabilmente quello che avevano in mente gli inventori di questo insegnamento morale; per rendersene conto, basta solo vedere con quale spirito vengono scritti alcuni manuali in uso nelle scuole e nelle università e non crediate che il docente possa rettificare tendenze simili: ciò che resta nella mente degli studenti, non è quello che viene spiegato più o meno casualmente per qualche istante ma quello che possono costantemente leggere nel libro che hanno nelle loro mani; abbiamo avuto più di una possibilità di sperimentarlo.
    Notiamo ancora, già che siamo in tema di problemi educativi, che le nozioni di diritto comune non sarebbero certo una cattiva cosa dal punto di vista pratico ed utilitario ma, pure accordando ciò a Johannet, siamo ben lontano dal condividere il suo parere in quanto al "valore educativo" del diritto che non ci sembra altro che un insieme di convenzioni sociali molto artificiali, per non dire arbitrarie.
    Ma torniamo a ciò che pensiamo sia il lato più importante di questo soggetto: ci chiediamo se il signor Johannet non consideri in modo troppo ampio l’espressione "scienza esatta", perché ci sembra includa sia le scienze sperimentali che le scienze di ragionamento puro; tuttavia sono solo quest’ultime, in parole povere la matematica, che da sola può essere definita davvero precisa, sia per quanto riguarda il metodo che per i risultati. Il metodo di Bacon, a cui Mr. Johannet fa riferimento, è l'opposto di un metodo esatto, che deve essere essenzialmente deduttivo; questo non vuol dire che tale metodo sia applicabile a tutto e noi siamo lontani, per quanto possibile, a condividere l’errore cartesiano che Auguste Comte giustamente caratterizza come "matematicismo universale"; vorremmo anche dire che difficilmente possono esistere idee "chiare e distinte" nel senso inteso da Cartesio, al di fuori del regno della quantità. Ci sono quindi molte cose per cui una conoscenza "esatta" non è possibile e si deve tenere ogni metodo nei limiti in cui è valido nella realtà; ma, se ci rendiamo conto che solo un’educazione unicamente matematica sarebbe suscettibile di falsare lo spirito con l’abitudine al rigore che non si ritrova in qualche grado nei 'fatti', non siamo meno convinti che le scienze matematiche, insegnate in proporzioni adatte, abbiano un "valore educativo" rispetto le scienze sperimentali.
    Ora se lo spirito moderno ereditato da Cartesio ha una tendenza a ridurre tutto al punto di vista quantitativo, è pur vero che le sue principali preoccupazioni ruotano principalmente sul lato delle scienze sperimentali, a causa delle molteplici applicazioni pratiche a cui conducono più direttamente. Se vi è un abuso, è piuttosto da quel lato, e questo sarebbe sufficiente per giustificare la qualifica di " scienze pretese esatte", perché, in questo campo sperimentale, la precisione non può essere davvero che illusoria; ma la matematica pura non può essere ritenuta responsabile per un'estensione abusiva del suo metodo, né la scienza in generale è davvero favorevole ad alcune ipotesi pseudo-scientifiche o che il vero spirito scientifico, che non è lo spirito dello "scienziato" ha comportato la necessità di cercare il "progresso" materiale come scopo esclusivo di tutta la civiltà.
    La scienza pura è, invece, una conoscenza sostanzialmente disinteressata e nessuna scienza ha più chiaramente questo carattere della matematica; questo da solo basterebbe a garantirle un innegabile "valore educativo", tranne, naturalmente, gli occhi di un utilitarista; forse questo valore non è esattamente quello dato dalla mentalità corrente, ma non è meno vero per ciò che è in sé. Quanto a parlare dei matematici che “lavorano sull’irreale", confessiamo che non li comprendiamo ancora: tutto ciò che possiamo pensare è, a suo modo, reale e la sfida è quella di mettere ogni cosa al suo posto, vale a dire, situarlo al suo posto nell'ordine della realtà cui appartiene per natura; ma identificare tutta la realtà con il sensibile è uno di quegli errori capitali che sono caratteristici della mentalità moderna, le cui preoccupazioni utilitaristiche ne delimitano strettamente l'orizzonte, al punto che ogni vera intellettualità alla fine diventa completamente estranea.
    C'è un ultimo punto che vorremmo spiegare molto brevemente: in tutto ciò che abbiamo detto della filosofia, non abbiamo fatto finora alcun riferimento alla metafisica; ora vediamo che Legendre, in una controversia su di un altro argomento, che si dichiara "d'accordo con il signor Johannet nel riconoscere che la vera filosofia è la metafisica." Se questo è il pensiero del signor Johannet bisognerebbe essere innanzitutto d'accordo su ciò che egli chiama la metafisica, per poi essere in grado di stabilire con precisione il rapporto tra metafisica e scienza. Crediamo che la conoscenza metafisica debba essere profondamente separata dalla conoscenza scientifica, perché è di un ordine diverso e non ha ulteriori rapporti con varie speculazioni né può essere qualificata più o meno "letteraria"; in ogni caso, se ci potesse essere un punto di contatto tra la metafisica e qualcos'altro, è solo dal lato della logica e della matematica che potrebbe essere cercato.
    Dobbiamo anche aggiungere che noi consideriamo come "pseudo-metafisica" tutto quel che si trova sotto questo nome nella filosofia moderna da Cartesio incluso e che la vera metafisica, come la concepiamo, non si presta alla formazione di base; è per questo che non ne abbiamo parlato prima e inoltre preferiamo metterla a parte da questo insieme passabilmente eterogeneo che è la filosofia nel suo stato attuale ma per spiegarci più pienamente, dovremmo andare troppo lontano.
    In conclusione vorremmo semplicemente dire che non vediamo bene un’educazione né esclusivamente scientifica né esclusivamente letteraria ma una combinazione il più equilibrata possibile dell'uno e dell'altra e senza di queste specializzazioni che vanno contro il vero obiettivo che dovrebbe normalmente fornire un’istruzione secondaria. Sappiamo che alcuni vorrebbero ora rimuoverla e sostituirla con l'istruzione tecnica; questa sarebbe la progressione naturale di questa tendenza alla specializzazione.

    (1) (1884 - 1972). Saggista e giornalista francese. Tra i suoi numerosi scritti sociologici e politici si segnalano L' evolution du roman social au XIX siècle (1910), La conversion d'un catholique germanophile. Lettre ouverte de M. Emile Prum […] a M. Mathias Erzberger (1915), Le principe des nationalités (1918), Rhin et France (1919), Eloge du bourgeois francais (1924). È anche autore di biografie su Georges Sorel (1914), Anatole France (1925), Joseph de Maistre (1932), San Vincenzo Ferreri (1935) e Charles Peguy (1950). Collaborò con molti giornali e riviste, tra cui la "Revue Française", il "Nouveau Siècle", l'"Echo de Paris", la "Croix", la "Revue des Deux Mondes", "L'Indépendence Française". Dal 1940 al 1946 fu addetto culturale del Ministero dell'Informazione.
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    Purtroppo c'è anche una povertà spirituale che non ha nulla a che vedere con quanto scritto sopra ma che si traduce in termini di "stupidità" e io ne faccio parte visto che ho pensato bene di cadere dallo scooter e rompermi un gincchio. Le vostre parole mi hanno comunque fatto passare una bella serata d'ospedale anche se le gustero meglio fra un paio di giorni da casa e non da un telefonino un po' scasso
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    Quando, d'altra parte si dice che "l’Anima" è “turbata dal sé”1 e che questa "Anima passa attraverso i cieli interi in forme che variano con la varietà del luogo"2 - si intendono la forma sensibile, la forma ragionevole ed anche la forma vegetativa"3 è evidente che è solamente per dire, che non c'è una questione di "molte Anime" e che quella descritta non è la traduzione di una personalità propria da un corpo ad un altro, ma piuttosto la peregrinazione dello Spirito (atman) descritta ripetutamente nelle Upanishad come con molte modalità ed onnipresente, più come un occupatore o animatore piuttosto, corpo dopo corpo, i quali corpi o piuttosto corpi ed anime sensibili, si susseguono l'un l'altro in una serie con continuazione di causa.4
    Tutto questo è certamente anche, quello che intendeva Eckhart (per cui la tradizione Neoplatonica persiste) quando è dice "ogni cosa è sospesa nell'essenza divina; il suo procedere (il suo veicolo) è la materia dove l'anima pone forme nuove e allontana quelle vecchie … quello che abbandona muore e quello che indossa vive" (ed di Evans. IO379), quasi identico con BG II,22 "Come un uomo butta via gli indumenti consunti, prendendone altri nuovi, così il Corpo Abitato (dehin = sarira atman), getta via i corpi consunti ed entra in quelli nuovi", cf. BU IV4.4 "solo così questo Spirito, lasciando il corpo e guidando via la sua nescienza crea per lui un'altra forma nuova e più equa."5
    Le tre sezioni delle Upanishad tradotte sotto cominciano con la domanda, "Cos’è più Spirito?" Che è per dire, "Cosa è questo "Sè" che non è “me stesso”? Cos’è questo "Spirito" in "me", che non è il "mio" spirito?" È la distinzione che Filone fa nelle Quaestiones … in Genesi II,59 e in De Cherubim, 113ff. (citato da Goodenough, By Light, Light, 1941, pp.374-375) quando distingue "noi” da quello che in noi esiste prima della "nostra" nascita e che ancora esisterà quando "noi, che nel congiungimento coi nostri corpi,6 siamo amalgamati (sunkritoi) e abbiamo qualità, , ma sarà portato nella rinascita da chi è stato congiunto a cose immateriali e noi diverremo non mescolati (asunkritoi) e senza qualità." La "rinascita" è certamente (palingenesi) e non un’ "aggregazione' o palingenesi nel senso biologico, ma una "rigenerazione", (palingenesi come un essere nato di nuovo, di e come Spirito di Luce) cf. Goodenough, p.376, nota 35.
    "Cos’è più il Sé", o "più lo Spirito?" In ultimo C. E. Rolt ha detto in un altro contesto (Dionisio l'Aeropagita sui Nomi Divini e la Teologia Mistica, 1920, p.35), "Pascal ha una risposta netta”:
    “Il n’y a que l’Etre Universel qui soit tel … le Bien Universel est en nous, est nous-même et ce n’est pas nous.”
    "Non c’è un essere universale che sia tale... il bene universale siamo noi, siamo noi - e non siamo noi."
    Questa è precisamente la dottrina di Dionisio. Ognuno deve entrare in sé e così trova Qualcosa che è il vero Sé ma che non è il suo particolare sé. Qual cosa oltre la sua individualità che è (altro) all'interno della sua anima ed ancora fuori di lui."
    "Se alcuni uomini vengono a me… e non odiano la loro anima (heautou psuchen, Vulgate animam suam) non possono essere miei discepoli" (Luca 14:26). Le versioni inglesi rifuggono da tale interpretazione, e non hanno "odio per la propria vita." È evidente, comunque, che non significa soltanto "vita", allora quelli che sono ad un tempo costretti a "odiare" i loro parenti e se, al contrario, li amano, possono essere disposti a sacrificare pure la vita per causa loro: quella che evidentemente si è inteso dire è l'anima più bassa, come regolarmente distinta nella tradizione neoplatonica dal potere più alto dell'anima che è quello dello Spirito e non realmente una proprietà dell'anima ma il suo ospite reale.7 E ancora, è precisamente da questo punto di vista che San Paolo dice con una voce di tuono, "La parola di Dio è rapida e potente e più acuta di una spada a doppio taglio, lacera e divide anima e spirito" (Eb. 4:12)8, e coerentemente con questo: "Chiunque si unisce al Signore è Lo Spirito" (Cor.6:17, cf. 12:4-13).
    Con questo si può paragonare, da una parte:
     Bhagavad Gita VI,6 "Lo Spirito veramente è il nemico dell’essere che non è lo spirito e con questo [anatman] lotta"9, dove anatman (= buddista anatta)10 è tutto questo: corpo-e-anima, di cui dice na me so atta, "Questo non è il mio spirito".
    con quest’altro in Eckhart:
     "Già l'anima deve abbandonare la sua esistenza" (ed Evans., IO274)11,
    e nell’anonima Nube dell’Inconoscibile, cap. XLIV,
     "Tutti gli uomini conoscono il dolore: ma specialmente provano paura, provano dolore perché sentono e capiscono di esistere",
    e con Blake
     "io andrò in giù fino all'Annientamento e alla Morte Eterna, affinché l’ultimo Giudizio venga e mi trovi annichilito, ed io sarò preso e dato nelle mani della mia stessa persona."
    Tutte le sacre scritture, ed anche ogni saggezza, veramente "piange ad alta voce per la libertà del sé."
    Ma se "egli prova dolore perché sente e capisce che esiste", colui che non è più qualcuno da molto e vede, non se stesso, ma come i nostri testi spiegano, solamente lo Spirito, uno e lo stesso nell’immanenza e nella trascendenza, essendo quello che lui vede, geworden was er ist 12, non sente dolore ma è reso beato, -
    "Un sovrano, Spirito interno di tutti gli esseri che moltiplica una sola forma! I contemplativi, vedendo Lui, che è fisso dentro ognuno e vedendo con Lui, - la felicità eterna è la loro, non di altri" (KU V,12)13.
    Una "esperienza presente dell’Inconoscibile e della Via Negativa che conduce a lui" (Rolt, nello stesso luogo.) non è facile da aversi, è solo per quelli che sono perfettamente maturi e, come frutta matura, sono pronti a cadere dal ramo. Ci sono uomini che ancora "vivono", almeno in India ma per loro i riti funebri sono stati compiuti come per suggellarli "morti e sepolti nella Divinità."
    "È duro per noi per abbandonare le cose familiari che ci circondano, e rivolgersi di nuovo alla vecchia casa da cui venimmo" (Ermete, Lib.IV,9). Ma può essere detto, anche di quelli che ancora sono coscienti di sé e non può sopportare la carne soffocante, che lui specialmente, se non ancora più specialmente, "prova gioia" a cui volontà già ha acconsentito pienamente, sebbene non ha potuto comprendere ancora, un annichilimento dell'idea intera di una privata proprietà nell'essere e ha così, per parlare, previsto ed assaggiato l'ultima rinuncia di tutti i suoi grandi beni, siano fisici o psichici. Mors januva vatae14.


    1 cf. Atmanam vibhajya di, MU VI 26 e "sempre la stessa cosa si presenta intera" nello stesso luogo., III,46
    2 Io (A.K.C.) non conosco la fonte di questa quotazione; probabilmente è Platonica, corrisponde precisamente a Nirukta, VII, 4 che "è a causa della sua grande divisibilità che loro applicano molti nomi a Lui... Gli altri Dei, o gli Angeli (devâh) sono alter-ego dell’Unico Spirito. Loro originano come funzioni (karma); Lo spirito (âtman) è la loro fonte... Lo spirito è l'intero di quello che loro sono", e Brihadâranyaka Upanishad io, 70-74 "a causa della vastità dello Spirito una diversità di nomi è data... secondo la distribuzione delle sfere. È poiché loro sono differenziazioni (vibhutih, cf, BG X40) che i nomi sono innumerabili... secondo le sfere in cui sono stabiliti." Cf. Maitri Upanishad VI, 26 "Distribuendo Sé stesso Lui riempie questi mondi", e per ulteriori riferimenti "Monoteismo Vedico" in JIH XV, pp. 54-92, aprile 1936. "Possono esserci diversità di doti ma un solo Spirito, ci sono differenze di direzioni ma uno stesso Dio. Diversità di operazioni, ma è lo stesso Dio che lavora ovunque... le membra di un corpo, pur essendo molte, sono un solo corpo" (I Cor.12:4-6 e12).
    3 nello stesso testo III,42
    4 Per il "karma" (= "adrsta") in dottrina cristiana, cf. S. Agostino, Gen. ad. Lit., VII, 24 VII, 24 (citato da S. Tommaso, Somma. Theol. I,91.2), "i corpo umano pre-esistettero nelle opere precedenti nelle loro virtù causali" e De Trin. III, 9 "Come una madre è incinta col discendente non ancora nato, così il mondo stesso è incinto con le cause delle cose non ancora nate" (cf. S. Tommaso, I 115.2 annuncio 4), e S. Tommaso, i. 103.7 annuncio 2, "Se Dio governasse da solo (e non anche per mezzo di cause mediate) le cose sarebbero private della perfezione della causalità."
    5 Hermes Trismegistus, Lib. X, 8b, kakia de psuchês agnôsia ... Tounantion de aretê psuchês gnôsis ... ho gar gnous ... êdê theios, e XI.II.21a, "Ma se zittisci l’anima nel tuo corpo e ti avvilisci, e dici “io non so niente” (Ouden noô)..., allora che hai a che fare con Dio?" Ignorantia divisiva est errantium, come dice Ulrich nel commento su Dionigi, De Div. Nom. «"agnostico" significa "ignorante", o quis ignorare vult sine ignorantiam diligit». Al contrario: "Pensa che per te nulla sia impossibile" (Hermes, Lib. XI,ii.20b), cf. "Nulla ti sarà impossibile" (Matt. 17:20); " Fino a quando l'anima non saprà tutto ciò che c'è da conoscere non passerà oltre al bene sconosciuto"" (Evans ed. I, 385); "Nessun deaspirazione senza onniscienza" (V di SP, 74 -75). Da notare che Hermes Lib. II,ii.20b-21a corrisponde a Chandogya UpanishadVIII.1.
    6 BG XIII, 26 “Ciò che è generato, qualsiasi cosa sia (kimcit sattvam, cf. Milinda Pañho citato prima, 72 koci satto) se mobile o immobile, è data dall’unione (samyogât) del Campo col conoscitore del Campo." Il "Campo" prima è stato definito in XIII, 5-6; abbraccia per intero quello che noi chiamiamo "anima e corpo" e tutto quello che è percepito da loro.
    7 (Cf. Plutarco, Obsolescenza degli Oracoli, 436F dove l'anima dell’uomo è assegnata alla Profezia (hê mantikê, qui = pronoia, Provvidenza come distinta da "necessità e cause naturali ") come il suo appoggio materiale (hulên men autê tên psychên tou anthrôpou ... apodidotes); e BG VI.6 dove lo Spirito è chiamato il nemico di quello che non è lo Spirito (anâtmanas tu ... âtmaiva satruvat). Essere disposto per perdere (odiare)
    la nostro psuchê significa dimenticare completamente noi stessi... non vivere più la nostra stessa vita, ma lasciare che la coscienza sia posseduto e soffusa dall'Infinito e dalla vita Eterna dello spirito" (Inge, Personal Idealism and Mysticism, p. 102 and James, Varieties of Religious Experience, p. 451).
    8 merismou psuchês kai pneumatos, cf.Hermes, Lib. X, 160 ho nous tês psuchês (chôrixetai).
    9 anatmanas tu satrutve vartetamaiva satruvat
    10 Anâtman, similmente "non-in-spirante" (non "despiranti") in Satapatha Brâhmana II 2.28 dove dei e titani sono allo stesso tempo originariamente "non-in-spiranti e "mortali", essere non-in-spiranti è lo stesso come essere mortale (anâtmâ hi martyah)"; solo Agni è "immortale (amartyah)".
    11 Da paragonare all’espressione usata da S. Bernardo, deficere a se tota and a semetipsa liquescere in De diligendo Deo; come Gilson rileva, p. 156, “Quelle différence y-a-t il donc, à la limite, entre aimer Dieu et s’aimer soi-même?” [Quale differenza fa/ha, il confine tra amare Dio e amare te stesso?"]
    12 diventa quello che è
    13 Eko vasî sarva-bhûtântarâtmâ ekam rûpam bahudhâ yah karoti: Tam âtmastham ye’nupasyanti dhîrâs tesâm sukham sâsvatam nêtaresâm [(Katha Upanishad V.12).] La forza di anu in anupasyanti possiamo suggerirla solo ripetendo "vedendo ... e vedendo con. " Le anime che discendono si lamentano che " I nostri occhi avranno poco spazio per afferrare le cose ... e quando vedremo il Cielo, nostro antenato, contratto a piccolo cerchio, non potremo mai cessare di gemere. E anche se vedremo, non vedremo a titolo definitivo " (Hermes, Stobeo, Ecc XXIII, 36); "Per ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia: ora conosco in parte; ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto" ( I Cor. 13:12 ). Vedere-di è perfezionamento di vedere-come, equivale a conoscenza-di in conoscenza-come (adaequatio rei et intellectus: per vedere il cielo " a titolo definitivo " richiede un occhio della larghezza del Cielo). Dhîrâh, "i contemplativi, sono coloro che vedono interiormente e non con" l'occhio della carne" (mamsa caksus); che vedono lo Spirito "dove tutto è visto" (abhidhyâyeyam, Maitri Upanishad I, 1), "lo Spirito che è tuo e in tutte le cose e allora tutto il resto è una miseria" (Brihadâranyaka Upanishad III, 4. 2). Si noti che ekam rupam bahuddhâ yah Karoti corrisponde a Samyutta-Nikâya II, 212 eko'pi bahuddhâ Homi: e " di cui tutto il resto è una miseria " e al buddista anicca, anatta, dukkha.
    14 La morte è la porta della Vita.


  11. .
    D'altra parte è ugualmente chiaro che ci sono stati malintesi popolari molto estesi, o dovuti ad ignoranza delle dottrine tradizionali o ad un'interpretazione troppo letterale di quello che era stato sentito. L'evidenza interna dei testi stessi, con le loro domande e risposte, definizioni e confutazioni, è ampiamente sufficiente per dimostrarlo.1 Da allora, ci fu quindi la necessità di quei dialoghi innumerevoli in cui2 ciò che in "noi" è e non è: lo Spirito viene quindi distinto nettamente ed è contrapposto.
    Lo Spirito è ciò che è e che "resta"3 quando tutti gli altri fattori della personalità composita "identità e aspetto", o "anima e corpo" sono stati eliminati. Inoltre, poiché "Quell’ Uno che respira eppure non respira" (RV. X129.2) non è non è qualsiasi cosa al contrario di qualsiasi altra cosa, Esso o Lui è descritto simultaneamente con affermazioni e negazioni: per modum excellentiae et remotionis.4 L'analisi seguente dell'Identità Suprema (tad ekam), limitata a parole derivate da an, "respiro" o va, "soffio" possono contribuire ad una migliore comprensione dei testi:

    1. 1
    2. Despirated Godhead (divino privo di respiro): Avatam, niratma, anatmya, nirvana, Pali nibbana.
      Sono possibili solamente definizioni negative.

    1. 2
    2. Spirito, Dio, Sole, "Conoscitore del campo", Re: atman, Pali atta.
      Nel moto, vayu, vata il "Vento forte dello Spirito"; e prana, "repirazione","l’Alito della Vita" come dato, non l'alito empiricamente, ma il "fantasma" che è abbandonato quando muore la creatura vivente.5 Essendo "Uno e molti", trascendente ed immanente per quanto senza alcun apertura o discontinuità, lo Spirito, se come atman o come prana può essere considerato al plurale (atmanah, pranah), attraverso solamente al "come se." Forma, come distinto dalla sostanza: l’intelletto.

    1. 3
    2. Ciò che non è spirito; la Luna; Il Campo, il Mondo, la Terra più Bassa, il dominio del Re: Anatman, Pali anatta.
      L'Ilomorfico, fisico e psichico, o sub-mentale veicolo dello Spirito, apparentemente diverso dal suo involucro. Sostanza mortale distinta dalla Forma che impronta.

    Queste non sono categorie "filosofiche", ma, dal nostro punto di vista, categorie dell’esperienza, sub rationem dicendi sive intelligendi, piuttosto che secundum rem. erige
    Solo timidamente possiamo discutere qui in dettaglio su quello che significano realmente palingenesi, metempsicosi, o metasomatosis nella tradizione neoplatonica6 e commentare che in quei testi come le Enneadi di Plotino III 4.2 (versione di Mackenna), dove è detto che:
    "Quelli (i.e. di noi) che hanno mantenuto il livello umano ancora una volta sono uomini. Quelli che hanno vissuto completamente per i sensi divengono animali … lo spirito della vita precedente paga la penale".
    Ci si deve rendere conto che si tratta di metempsicosi e metasomatosis (e non una trasmigrazione della vera persona) questo è il problema; è una questione, in altre parole dell’eredità diretta ed indiretta delle caratteristiche psico-patiche-fisiche che il defunto non porta con se alla morte e che non sono una parte della sua vera essenza ma solamente il suo veicolo provvisorio e più esterno. È solo nella misura in cui scambiamo erroneamente la “nostra identità” con queste vesti accidentali della personalità trascendente, le semplici proprietà dell'esistenza umana terrena, che si può dire che "noi" siamo reincorporati in uomini o animali: non è lo “spirito" che paga pena7, ma l'anima animale o sensibile di cui lo spirito disincarnato non si dava la pur minima preoccupazione.8
    La dottrina spiega soltanto la riapparizione di caratteristiche psico-fisiche nella sfera mortale della successione temporale. L'intenzione dell'insegnamento è sempre quella che un uomo dovrebbe riconoscere "se" nello spirito e non nell'anima sensibile, di fronte alla morte tuttavia, fallendo il "sé" può essere in una certa misura solamente "perso" o, eventualmente, disintegrato.


    1 vedi post dell'8 maggio
    2 come nelle Upanishad, Bhagavad Gita e Buddismo
    3 KU V, 4 kim atra sisyate? CU VIII, 5 atisisyate ... âtman. Da notare che tad sisyate = Mare = Ananta = Brahman = Âtman.
    4 La dottrina indiana de divinis nominibus è stata discussa brevemente in Journal of Indian History XV, 84-92, 1936, qui bisognerà solo notare che RV V, 44,6 “yâdrg eva dadrse tâdrg ucyate", come è previsto, così è lui chiamava" risposte a St . Tommaso, Sum. Theol. I. XIII[1c: Voces referuntur ad rea significandas mediante conceotione intellectus. Secundum iqitur quod aliquid a nobis intellectu cognosci potest, sic a nobis potest nominari, e ad 3: Pronomina vero demonstrationem ad id quod intelligitur, e 5c: Secundum analogium creaturum ad ipsum.]
    5 Prâna, come il greco pneuma ha il duplice valore di Spiritus e spiraculum vitae a seconda del contesto. "È come il Respiro della vita (prana) che lo Spirito Provvidente ( prajnâtman ) afferra e crea la carne " ( Kaus. Up . III , 3) , cfr . San Tommaso, Sum. Theol., III , 32,1 , "Il potere dell'anima che è nel seme, attraverso lo spirito lì unito, modella il corpo ", e Schiller , Wallenstein , III , 13" Es ist der Geist der sick den Körper schart "[è lo spirito che gira nel corpo]; e JUB III , 32.2 . Considerando che il prânah diviso è detto muoversi entro i vettori dei canali (Nadi, Hita) del cuore (vedi refs. Hume, Upanishad, ed.2) , in Hermes Lib . X , 13 e 17, lo "Spirito vitale" (pneuma) attraversa le vene e arterie" con ma non come il sangue" e quindi "sposta il corpo e lo porta come un peso ... ( e ) controlla il corpo. " Il Prana è identificato con il Prajñâtman: prana è "la vita ", Prajñâtman l’ "immortalità"; la lunghezza dei giorni in questo mondo e l'immortalità nell'altro sono complementari. Come distinto dal prana, il prânah diviso sono i canali della percezione mediante gli organi di senso ed esistono prima di loro. Quindi come in Katha Upanishad IV.1 si dice, "l'auto-esistente trapassa le aperture verso l'esterno, così è che si guarda avanti" (ma bisogna guardare per vedere il Veggente, vedere la discussione di questo passaggio in Journal of Indian History XI , 571-578 , 1935) .
    6 per più riferimenti, Scott, Hermetica, II, 265ff.
    7 Vale a dire una "trasmigrazione vergognosa in corpi di qualche genere", Ermete Trismegistus, Asclepius I, 12a, cf. BU VI,2.16, CU V,10,7-8, Kaus. I.2.. Noi capiamo che il risultato di una bestialità in "noi" è che i tipi bestiali sono propagati: questo è la reincarnazione del carattere nel nostro senso (1), e è così che "i peccati dei padri ricadono sui figli." Le "bestie" inoltre sono un simbolo, come quando diciamo, non "sono una bestia" o ci riferiamo a qualcuno come ad un "verme" o a una donna come una "gatta." La tradizione indiana usa regolarmente questo genere di linguaggio, AA II3.8 (un locus classicus, cf. la definizione di "persona" di Boethius, Contra Eutychen, II), per esempio, definendo l'uomo spirituale come quello che "sa ciò che è e ciò che non è mondano/terreno", ecc., come una "persona" (purusha) mentre gli "altri"son quelli che hanno per la conoscenza soltanto una “simpatia” come il "bestiame” (pasu)."
    Per il beneficio di quelli che credono nell'origine popolare della nozione di reincarnazione (intesa come rinascita nella carne della stessa persona deceduta) si può osservare che i Batak di Sumatra divorarono i prigionieri di guerra per assimilare il loro valore e i loro antenati come una forma di internamento pio.
    Questo capitava di frequente ed era, se non sempre, una richiesta della vittima, nella credenza che tale “pasto” avrebbe assicurato una “continuazione dell’esistenza nella forma di un'anima nuova" (G.H. Seybold Asia, Settembre 1937, p. 641). Questa fede cannibale è una credenza nella metempsicosi e non nella "reincarnazione."
    8 In tutte queste discussioni deve essere ricordato che “l’anima" (psuchê, senza esatto equivalente in Sanscrito se non nâma, nome o "forma" di una cosa o ciò che ne stabilisce l’identità) ha un duplice valore; i poteri più alti dell’ "anima" che coincidono con lo Spirito (pneuma) e/o Intelletto, (nous hêgemôn, o noûs) e
    quelli più bassi che coincidono con le sensazioni (aisthêsis) e le opinioni (doxa). Da qui la gerarchia Gnostica di uomini animali, psichici e spirituali: i primi destinarono essere persi, quelli in mezzo capaci di liberazione e gli ultimi virtualmente liberi e sicuri della liberazione a morte (Bruce Codex, ecc.).
    Per "perso" s’intenda "disfatto nel cosmo" (Hermes, Lib. IX, 6), e per "liberato", completamente separato dall'anima animale per diventare quello che i poteri più alti già sono: divino. Traducendo âtman con "anima"[soul]. Osservare che "animale" deriva da anima = psuchê, animalia = empsucha; per questo Scott, negli Ermetica,I.297 traduce Solum enim animal homo con "Uomo e solo l’uomo tra tutti gli esseri che hanno l’anima"; è da nous e non da psuchê che l'uomo è distinto dagli animali. (Hermes, Lib. VIII 5).
    Bisogna osservare che la dottrina Averroista dell'Unità dell'Intelletto (il termine "monopsichismo" sembra particolarmente improprio) era ripugnante per i autori cristiani scolastici di età più tarda, proprio a causa della sua incompatibilità con la credenza nell'immortalità personale (cf. De Wulf, Histoire …, II, 361, 1936). D’altra parte l’immaginazione (phantasmata) e la memoria sopravvivono alla morte del corpo non come sono nell'intelletto passivo (noêsis nell’ermetismo, in Skr. asuddha manas) ma solo come sono nell’intelletto possibile (nous ermetico, Skr., manas suddha), che "è in atto quando si identifica con ogni cosa come conosciuta" (S. Tommaso, Sum. Theol., I, 2,67. 2C).
    Inoltre San Tommaso afferma che " dire che l'anima ha sostanza divina comporta un improbabilità manifesta» (I , 90,1 ) , ed Eckhart parla continuamente delle morti e dell’ultima morte dell'anima. È chiaro almeno che un’immortalità “dell'anima" sensibile e del ragionamento è fuori questione, di fatto se l'anima può in ogni senso essere chiamata "immortale", è rispetto alla "potenza intellettuale dell'anima " piuttosto che per quel che riguarda l'anima stessa. Hermes "l’anima è unita al corpo" Lib XI ,24 bis, non è concepibile per principio come immortale, anche supponendo un post-mortem di coesione temporanea di taluni elementi psico-fisici del bhûtâtman (il se legato agli elementi); né possiamo equiparare “l’anima” che Cristo ci chiede di "odiare" con "l’anima immortale dell'uomo”. La “ricerca dell’anima” dell’uomo moderno è molto diversa da ciò che è implicito "nell’anima dell’anima" di Filone; si potrebbe dire che la psicologia moderna ed estetica veda solo l'anima più bassa o animale nell'uomo e solo il subconscio .
    Quello che Philo (Quis rerum divinarum Heres, 48, versione di Goodenough, p. 378) dice è che "La parola “anima” è usata in due sensi, riferendosi all'anima nel suo insieme o al suo dominante (= hêgemonikon = Skr. anataryâmin) la parte che secondo è, propriamente parlando, “l'anima dell'anima" (psuchê psuchês. MU III, 2 “bhûtâtman ... amrto’ syâtm "il sé degli elementi... il suo immortale Sé). Il valore della "anima" europea è rimasto sin da allora ambiguo.
    Da questo nell'analisi delle dottrine neoplatoniche sulla rinascita ed anche in tutta la tradizione cristiana dai Vangeli ad Eckhart ed ai mistici fiamminghi, è indispensabile sapere solo di che "genere di anima" si tratta in un determinato contesto; nel tradurre dal Sanscrito è molto pericoloso e costantemente fuorviante rendere âtman con "anima."


    Edited by amarisia - 11/5/2014, 23:08
  12. .
    La nascita dello Spirito

    Ananda Coomaraswamy
    cap. 17 di “Essential Coomaraswamy”
    REDATTO DA RAMA COOMARASWAMY

    “non ci si può bagnare i piedi due volte nelle stesse acque,
    perché le acque fresche sempre scendono a valle.” A
    Eraclito

    Questo capitolo interpreta parte del materiale raccolto negli ultimi anni per un'analisi critica sul concetto indiano, ed incidentalmente neo-platonico o di altre dottrine, sulla “reincarnazione”, la metempsicosi e la trasmigrazione delle anime, termini definiti più avanti con maggior precisione.ii
    Queste dottrine sembrano essere state spesso profondamente incomprese, se fosse possibile, ancor più di altri aspetti della metafisica indiana.
    Le tesi che saranno proposte non sono altro che le dottrine indiane sulla palingenesi come sono correttamente enunciate dall'istruzione buddista che con "reincarnazione" non intende iii il passaggio da un'incarnazione ad un’altra, la continuità è solo, come si vedrà, quando una lampada è illuminata da un’altra: che i termini impiegati per "rinascita"iv sono utilizzati in almeno tre sensi facilmente distinguibili:
    1. Trasmissione delle caratteristiche fisiche e psichiche da padre a figlio, cioè una palingenesi in senso biologico, definita da Websterv come "la riproduzione di caratteri ancestrali senza mutamento".vi
    2. Transizione da un piano a un altro di coscienza nel corso di una stessa vita individuale, cioè quel tipo di rinascita che è implicita nel dire " nuovamente nato," il cui termine ultimo è la divinizzazione. vii
    3. Il "movimento" o la peregrinazione dello spirito da un corpo con anima ad un altro,viii "movimento" che avviene necessariamente ogni volta che muore un tale veicolo composito e un altro è generato, proprio come l’acqua potrebbe essere versata fuori da una qualche nave in mare e introdotta in un’altra, ma è sempre "acqua", e mai, eccetto nella misura in cui la nave sembra imporre un'identità temporanea alla forma contenuta, che è e resta correttamente "acqua";
     Nessun dottrina sulla rinascita è insegnata nelle Upaniśad o nella Bhagavad Gita che non sia già esplicita o implicita nel Rig Veda.
    La parola "Spirito" nell'introduzione è usata per tradurre atman, brahman, mŗtysu, puruşa, o altri simili, ma nel corpo dell'articolo la si impiega solamente in riferimento ad atman, presumendo come usuale una derivazione da una radice an o va che vuole dire respiro o soffio. Poiché lo spirito è l'intero Essere in tutti gli esseri che non hanno essenza realmente propria ma solamente un divenire, atman [in sanscrito] è usato anche riflessivamente per indicare l'uomo stesso come ognuno concepisce "se stesso" (come corpo, o corpo e anima, o corpo anima e spirito, o finalmente e propriamente solamente come Spirito),ix in tali contesti noi rendiamo atman "sé", o qualche volta "sé o spirito." Le maiuscole sono usate ogni qualvolta sembra esserci una possibilità di confondere l’Uomo vero o Dio immanente con l'uomo "stesso"; ma deve essere sempre ricordato che la distinzione di spirito da Spirito e persona da Persona è "solamente logica, e non vera", in altre parole, una distinzione senza differenza (bhedabhea). Per avere un’immagine di quello che tale distinzione può implicare (analoga a quella delle Tre Persone come rappresentata nella Trinità cristiana) basta ricordare che i Perfetti sono detti essere "raggi" del Sole supremo i cui raggi sono manifestamente distinti se considerati nella loro dilazione, ma non meno evidentemente indistinti se considerati nel loro intensione, cioè alla loro fonte.
    Le Upanishad e la BG sono innanzitutto indirizzati in primo luogo a provocare nel discepolo un trasferimento di referenza del Sé, il sentimento del "io sono" dal sé allo Spirito dentro di noi: questo col puro scopo praticox in prospettiva di indicare un Modo (marga, buddista magga) xiche può essere seguito dall'oscurità alla luce e dalla passività al dolore e alla morte per uno stato senza tempo e senza beatitudine immortale che è raggiungibile addirittura qui ed ora. Nelle Upanishad e nel primo Buddismo è chiaro che quello che era stato un insegnamento iniziatico trasmesso in successione ai discepoli si stava diffondendo pubblicamente e, in qualche misura adattate alla comprensione "reale" e non soltanto ai tipi "sacerdotali" della mentalità, come ad esempio nella BG.


    A Frammento 12; cf. Frammenta 30, 31a 31b, 91a (qv) 91b, 48a 50 e 10. La linea di Eraclito potrebbe essere tradotta anche: "Quando avanzano negli stessi fiumi sono diversi ed acque diverse fluiscono su loro", cf. Plut. De apud Delphous
    3926. Il riferimento originale è in Arius, Didyma, Dox. Gr. 471.47 e Platone, Theatetus 160D, Cratylus 401D e 402A. Qui l'enfasi è l'unità del Flusso del Mondo della quale siamo parte, ad un certo punto una cosa ed ad un altro una imminente.
    ii Fare riferimento a A.K.C. "Esemplarismo Vedico", Harvard Journal of Asiatic Studies, I, 1936 e "Rinascita ed Onniscienza nel Buddismo Pali" Indian Culture, III, p. 19f e p. 760; e René Guénon, L’errore dello spiritismo, Parigi, 1930 Cap. VI.
    iii Mil. 72, na koci satto, "non alcun essere." Si noti che questa espressione non è affatto necessariamente esclusiva dell'Atman come definito nelle Upanishad per negazione, Basilides ouk ôn Theos, il Dio di Eriugena che non "non è alcuna cosa”, la Divinità "inesistente" di Eckhart, il Dio di Behmen che non è "cosa."
    iv es. punar janma punar bhava, punar apâdana, (prati januma, nava jamna)
    v Noah Webster (West Hartford, 16 ottobre 1758 – 28 maggio 1843) è stato uno scrittore, editore, lessicografo, nonché revisore della Bibbia riformata e riformatore di testi statunitensi. Fu soprannominato il "Padre dell’educazione e della scuola americana."
    vi In molti testi importanti, la rinascita è esplicitamente e categoricamente definita in termini di ereditarietà e questo è probabilmente l'unico senso in cui l'individuo è immaginato come se tornasse al piano di esistenza da cui è partito alla morte. È espressamente lo stato del defunto che non si vede più qui (SB XIII , 8.4.12 , etaj jîvâ’s ca pitaras ca na samdrsyante, e SB . Passim , sakrd parâñcah pitarah ) . C’è anche RV VI , 70.3 : "È nato prima nella sua progenie in base alla legge" (praprajâbhir jâyate dharmanas pari); AB VII , 13, "Il padre entra nella moglie, la madre, divenendo un embrione ed entrando nuovamente nell’essere, nasce di nuovo da lei" (jâyâm pravisati, garbho bhûtvâ, sa mâtaram, tasyâm punar navo bhûtvâ jâyate, cf . XI AV , 4.20); AA II , 5, "In cui lui è sia prima che dopo la nascita…fa il figlio a diventare (sa yat kumâram ... adhibhâvayati), si tratta solo di se stesso come figlio, che egli diventa" (kumâram ... adhibhâvayati âtmânam eva); CU III , 17.5 , "che ha procreato , cioè la sua rinascita " (asosteti punar-utpâdanam) ; BU III, 9.28 , "Egli (il defunto) è infatti nato, ma non è nato di nuovo, perché (pur essendo deceduto) non è lì per generare di nuovo?" (jâta eva na jâyate, ko nv enam janayet punah). Anche BU II,2.8 in cui la filiazione è rinascita "in una somiglianza" ( pratirûpah). Sarebbe impossibile avere una definizione più chiara del significato ordinario di "reincarnazione".
    Questo reincarnazione filiale è inoltre proprio la antapokatastasis o "rinnovo delle cose per sostituzione" di Hermes, come spiegato da Scott (Hermetica,II,322) , "Il padre vive ancora in suo figlio; e anche se gli individui muoiono e non ritornano più, la gara è perennemente rinnovata. "E va aggiunto che oltre al fatto naturale della reincarnazione progenitrice c'è anche una comunicazione formale e la delegazione della natura del padre e lo stato del mondo, quando per il padre è il momento della morte. Così nel BU I,5.17 -20 , quando è stata fatta questa "lascito totale" (sampratti ) , "il figlio che è stato così indotto (anusistah) è chiamato il padre “mondano - rappresentativo" (lokyah) , e così " attraverso il figlio il padre è ancora presente (pratitisthati) nel mondo”, e similmente in Kaus. Up.II,15 (10) dove li " lascito totale del padre al figlio" (pitâpûtrîyam sampradânam) è descritto con maggiore dettaglio. Se dopo questo lascito, per caso il padre recuperasse, dovrebbe vivere sotto la signoria dei figlio o diventare un errante religioso (parivâvrajet, cioè diventare un parivrâjaka morto al mondo almeno nella forma esteriore).
    vii Cf. “Indian Doctrine of Man’s Last End,” Asia, May 1937.
    viii "Moto", non un moto locale, ma un'onnipresenza, e come quando parliamo, anche se metaforicamente, di un "corteo" in divinis. Non un moto locale, ma del Motore Immobile, “l'Immobile più rapido di pensiero stesso... colui che sorpassa gli altri sebbene corrano" (Isâ 4), "seduto, Lui va lontano; sdraiato va dappertutto" (KU II21), essendo "Senza fine in ogni direzione" (MU VI17), e sebbene "Lui non venga da nessuna parte" (KU II18), ancora "Perpetuamente differenzia e va dappertutto" (Mund. IO2.6) e " prende nascita con molte forme"(bahudhâ jâyamânah, Mund. II,2.6).
    ix "Dove noi diciamo, “non mi faccia male", intendiamo dire il corpo, o "io so", o la "mia anima", un maestro molto accurato direbbe "non faccia male a questo corpo", "questa mente sa", e "lo Spirito in «me»" o " abitante del corpo."
    xCf. Edgerton, "Le Upanishad, cosa cercano e perché?", JAOS., 51. 97; Dante, Ep. ad. Can. Grande. §15,16. La tradizione Vedica non è filosofica, mistica, né religiosa nel senso moderno e comune di queste parole. La tradizione è metafisica; "mistica" solamente nel senso che espone un "mistero", ed in quello della Theologia Mystica di Dionysius. La posizione indiana è stata mirabilmente definita da Satkari Mookerjee: "Chiaramente la domanda della salvezza è un problema d'importanza di vitale e costituisce la giustificazione e l'ultima ragione d’essere dell'inchiesta filosofica. La filosofia in India non è mai stato un mero interesse speculativo a prescindere dalla sua incidenza sulla vita ... L'obiettivo si profilava grande nell'orizzonte filosofico, ma è stato riconosciuto che non vi era alcuna scorciatoia né facile passaggio su di essoIl prezzo intero doveva essere pagato in forma di incrollabile realizzazione filosofica dei misteri ultimi dell'esistenza conseguiti attraverso una disciplina morale rigorosa; una puramente accademica e intellettuale soddisfazione proveniente dagli studi filosofici è stata considerato di valore solo nella misura in cui è stata calcolata per realizzare la consumazione felice "( The Cultural Heritage of India, Vol.III, pp. 409, 410, 1937).
    xi Per il significato di questa parola vedere A.K. C. “Nature of ‘Folklore’ and ‘Popular art’” in Quarterly Journal Mythic Society, Bangalore, Vol. XXVII.


    parte 1a di 3

    Edited by amarisia - 12/8/2014, 20:08
  13. .
    nota 9 a "la nascita dello spirito" cap. 17 di Essential Coomaraswamy

    Noi non diciamo che una teoria della reincarnazione (la re-incarnazione specifica di un uomo, cioè della vera personalità del defunto) non sia mai stata creduta in India o altrove, ma d'accordo con R. Guénon affer-miamo che "non è mai stata insegnata in India, neanche dai buddisti ma è essenzialmente una concezione europea moderna", inoltre "nessuna dottrina tradizionale autentica ha mai parlato di reincarnazione" (L'Erreur spirite, pp 47 , 199). È generalmente accettato dagli studiosi moderni che la "reincarnazione" non sia una dottrina vedica ma che abbia un’origine popolare o sconosciuta, adottata e data per scontata già nelle Upanishad e nel buddismo. Trascurando il buddismo per il momento, si può osservare che dove abbiamo a che fare con un tema fondamentale e rivoluzionario e non con un semplice sviluppo delle dottrine insegnate in precedenza, è inconcepibile per il punto di vista tradizionale e ortodosso indù affermare che ciò non è insegnato in qualche parte della shruti possa essere insegnato altrove. A tal proposito, non si può immag-nare un indù ortodosso "scegliere" tra il Rig Veda e le Upanishad, come se uno dei due potesse essere giusto e l'altro sbagliato. Questa difficoltà scompare se accertiamo che la teoria della reincarnazione (come distinta dalle dottrine della metempsicosi e della trasmigrazione) non è realmente insegnata nelle Upanishad: in questo contesto richiamiamo una particolare attenzione alle dichiarazioni della Brihadâranyaka Upanishad, IV,3.37, dove , quando una nuova entità è arrivata all’essere, gli elementi costitutivi del nuovo concepito non sono annunciati come "Ecco che arriva uno così e così" (il precedentemente defunto) ma , "ARRIVA BRAHMAN. "
    Tutto ciò è in perfetto accordo con il Milinda Pañho buddista, 72, dove si dice categoricamente che nessuna entità passa in ogni caso da un corpo all'altro ma semplicemente che una nuova fiamma è accesa. Nel differenziare la reincarnazione, come sopra definita, da metempsicosi e trasmigrazione si può aggiungere che ciò che si intende per metempsicosi è l'aspetto psichico della palingenesi, o in altre parole l’eredità psichica e quello che si intende per trasmigrazione è un cambiamento di stato o di livello di riferimento escludendo, per definizione, l'idea di un ritorno in qualsiasi stato o livello da cui si è già passati. La trasmigrazione dell'Atman "individuale" (spirito) si distingue solo come un caso particolare della trasmigrazione di Paramatman (Spirito, Brahman), per quest’ultima, però può essere dimostrata impiegando un termine più opportuno come "peregrinazione." La peregrinazione sostituisce la trasmigrazione quando lo stato del kâmâcârin (mosso dalla volontà) è stato raggiunto.
    Ci sono indubbiamente molti passaggi nelle Upanisad, o altrove, che, presi fuori dal loro contesto, sembrano parlare di una "reincarnazione personale" e sono stati quindi fraintesi allo stesso modo in India e in Europa.
    Cfr . Scott, Hermetica , II , pp 193-194 , nota 6 (nella frase citata si parla del figlio di Valerio ma per i nostri scopi vale per un qualsiasi "qualcuno" o “ogni uomo”):
    «durante la sua vita terrena era una porzione distinta di pneuma, delimitato e diviso dal resto; ora quella porzione di pneuma che era lui, viene miscelata con l'intera massa del pneuma in cui la vita dell'universo risiede. Questo è ciò che lo scrittore (Apollonio) deve aver inteso, se è stato fedele alla dottrina stabilita nella parte precedente della lettera. Ma da questo punto in poi, parla ambigua-mente e utilizza frasi che, ad un lettore che non ha pienamente afferrato il senso della sua dottrina, potrebbe sembrare implicare una sopravvivenza di un uomo come una persona distinta e individuale».
    La mentalità moderna, con il suo attaccamento all’ "individualità" e alle "prove della sopravvivenza della persona" è predisposta a fraintendere i testi tradizionali. Non si dovrebbe leggere in questi testi quello che vorremmo o "naturalmente" ci aspettiamo di trovare in loro, ma solo per leggere in loro che cosa significano: ma "è difficile per noi abbandonare le cose familiari intorno a noi, e tornare indietro alla vecchia casa dove siamo venuti" (Hermes, Lib.IV,9) cioè l’individualità. Tuttavia possiamo spezzare le sue catene, è una modalità parziale e definitiva di essere: "io" è definito da ciò che è "non-io " e quindi imprigionato. È in vista della liberazione da questa prigione e da questa parzialità che i nostri testi dimostrano così ripetutamente che la nostra vantata individualità non è né uniforme né costante, ma composita e variabile, sottolineando che è più saggio colui che dice "Io non sono ora l'uomo che ero" Questo è vero in una certa misura per tutte le cose finite; ma la "fine della strada" (adhvanah param) sta al di là dell’ “umanità”. " È solo di ciò che non è individuale, ma universale (cosmico) che la durata può essere attribuita e solo di ciò che non è né individuale né universale che un'eternità, senza prima o dopo, si può affermare .
  14. .
    tutti i libri di Coomaraswamy in inglese QUI

    Tempo ed Eternità

    prossimamente anche la dottrina del sacrificio
  15. .
    Cosa si deve imporre l'aspirante all'iniziazione (murid) prima di trovare il maestro spirituale (sceicco).
    Ibn ‘Arabî

    esprit-universel.overblog.com
    Futuhat

    Che Allāh ti assista e illumini. Sappi, che la prima cosa che si deve imporre chi entra in questa Via divina e legale (1) è ricercare un maestro finché non lo si trovi (2). Allo stesso tempo, bisogna imporsi 9 cose nelle opere (a'mâl) consigliate (9 sono un numero minimo), si così disporrà di un "piede permanente" (3) nel Tawhîd. È per questo che Allâh ha determinato un numero di sfere (aflâk) uguale a 9. Osservate la saggezza divina (4) in questi movimenti di sfere (harakat): tra questi, quattro sono esteriori (dhahir) e cinque interiori (batin). Quelle esterne sono: il digiuno, (jû'), la veglia (sahar), il silenzio (samt) e la solitudine ('uzlah) di cui due sono effettivi: la veglia ed il silenzio. Per silenzio, voglio dire scostarsi delle parole delle persone (5) e impegnarsi nel "ricordo del cuore" (dhikr al-qalb).
    Così, bisogna privilegiare l'espressione dell'anima (natq an-nafs) a quella della lingua salvo in quello che im-pone Allâh (6) nella lettura del Corano, o di "ciò che fu facilitato del Corano" (7) all'epoca della preghiera rituale ed il takbîr in quello che così è stato legalmente prescritto (mâ shara'a) nella glorificazione (tasbîh), nel ricordo (dhikr), nelle invocazioni (du'â'), nell'attestazione (tashahhud), e nella preghiera sull'inviato di Allâh - su lui la grazia e la pace. Così si assolvono le opere obbligatorie e ci si può dedicare al "ricordo del cuore" per il silenzio della lingua, il digiuno comprende la veglia ed il silenzio include la solitudine.
    Per quanto riguarda le cinque [opere] interiori, essi sono: la sincerità (sidq), la rimessa fiduciosa in Dio (tawakkul), la pazienza (sabr), la volontà (‘azîmah) e la certezza (yaqîn).
    Queste nove [opere] sono le madri del bene, comprendono tutto il bene (8) e sintetizzano la Via in esse (9). Obbligati nella loro pratica (alzimhâ) prima di trovare lo Sceicco. [Ibn ‘Arabî, Futûhât chap.53. Bâb fî ma’rifat mâ yalqî al-murîd ‘alâ nafsihi fî-l-a’mâl qabla wujûd ash-shaykh. Estratto tradotto e annotato da A.]



    (1) at-tarîqah al-ilâhiyyah al-mashrû’ah.
    (2) talab al-ustâdh hathâ yajiduh.
    (3) Traduzione letterale di qadam râsikh. Il simbolismo del piede (qadam) è in relazione con la Via iniziatica (tarîqah) come affermava lo Sceicco Muhammad Amîn al-Kurdî, morto nel 1332/1914 - radiyallâh 'anh - nel suo Tanwîr al-qulûb: "Con l'espressione "piede" (qadam) si intendono la sunnah e la tarîqah. "
    (4) al-hikmah al-ilâhiyyah. René Guénon aveva indicato l'equivalenza numerica tra questa espressione che significa "Saggezza divina" e la parola Sûfî: "questo perché la parola Sufia ha lo stesso numero di El-Hekmah el-ilahiyah, che significa "Saggezza divina" [numero 186]. Il Sufi vero è quello che possiede questa Saggezza dunque, o in altri termini, è el-ârif bi-Llâh, questo essere-a-dire "quello che conosce per Dio", perché Egli non può essere conosciuto che per Sé stesso; chiunque non abbia raggiunto questo grado supremo non può es-sere detto realmente Sufi, ma solamente mutaçawwuf. (Il Sufismo, Rivista Le Voile d’Isis N°176-177 Agosto-settembre 1934, p.289-296).
    (5) tark kalâm an-nâs.
    (6) mâ awjaba Allâh.
    (7) Expression issue du Coran : Fa-qra’ mâ tayassara mina-l-qur’ân (Cor.73, 20), « Lisez donc ce qui vous fût facilité du Coran ».
    (8) al-khayr kulluhu. Toutes les bénédictions ou influences spirituelles.
    (9) at-tarîqah majmû’ah fîhâ.

    Edited by amarisia - 5/4/2014, 23:55
64 replies since 21/1/2012
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