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la via nascosta

una nuova comprensione dei Veda

testo di A: K. Coomaraswamy

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    Questo è il testo inglese reperibile su archive.org

    questo libro raccoglie diversi articoli sui Veda e la loro interpretazione molti dei quali mai tradotti in italiano, questo è l'indice:

    Indice
    Ringraziamenti
    Preambolo di V.N. Misra
    Prefazione di Ananda K. Coomaraswamy
    Un nuovo approccio ai Veda - Saggi sulla traduzione ed esegesi:
    Brihadāranyaka Upanişad, I, 2
    Parti della Maitrī Upanişad
    Tre Inni Vedici: Ŗgveda, X. 129; Ŗgveda, X. 72; Ŗgveda, X. 90
    L’apparente movimento del Sole
    Il Ŗgveda come libro della conquista della terra
    Note sulla Katha Upanişad
    Il lato oscuro dell’aurora
    La Memoria, in India e per Platone
    La dottrina vedica del 'Silenzio'
    La dottrina tantrica della divina biunità
    Kha e altre parole che indicano 'Zero', relativamente alla metafisica indiana dello spazio
    Sull'unico e solo trasmigrante
    "Monoteismo" Vedico
    Aspetti bhakta della dottrina atman
    Mahā Puruşa: "Identità Suprema"
    Nirukta = Hermeneia
    Il diluvio nella tradizione indù
    Il Vedanta e la tradizione occidentale
    Esemplarismo vedico
    Atmayajna: sacrificio di sé
    Manas
    Elenco delle abbreviazioni e dei titoli brevi
    Indice dei termini sanscriti

    PREFAZIONE
    La letteratura sacra dell'India è accessibile alla maggior parte di noi solo per traduzioni fatte da eruditi più esperti di linguistica che di metafisica ed è stato esposta e spiegata — o direi piuttosto, sciorinata —principalmente da eruditi già formati dalle presunzioni naturalistiche degli antropologi, le cui capacità intellettuali dipendono totalmente dall’evidenza fisica degli oggetti e incapaci di distinguere la realtà dall'apparenza: il Sole Supremo della metafisica dal sole fisico dell’esperienza quotidiana. A parte questi, la letteratura indù è stata studiata e spiegata da propagandisti cristiani il cui interesse principale era dimostrare la falsità e l'assurdità delle dottrine implicite, o da teosofisti che hanno caricaturato quelle dottrine magari con le migliori intenzioni ma sicuramente con risultati ancora peggiori.
    L'uomo colto di oggigiorno è completamente fuori sintonia con i modi del pensiero europeo e con quegli aspetti intellettuali della dottrina cristiana che meglio si avvicinano a quelli della tradizione vedica. Una conoscenza del cristianesimo moderno sarà di scarsa utilità, perché la sentimentalità fondamentale dei nostri tempi ha ridotto quello che una volta era una dottrina intellettuale ad una mera moralità che può appena distinguersi di un umanesimo pragmatico. Di un europeo, difficilmente si può dire che sia adeguatamente preparato allo studio del Vedanta a meno che non abbia acquisito qualche conoscenza e comprensione, come minimo di Platone, Filone, Ermete, Plotino, dei Vangeli, specialmente quello di San Giovanni, San Dionigi, e finalmente di Mastro Eckhart che, con la possibile eccezione di Dante, può essere considerato da un punto di vista indù come il più grande di tutti gli europei.
    Il Vedānta non è una “filosofia” nel senso corrente della parola, bensì solo nel senso che questa parola ha nella frase “philosophia perennis” e solo se abbiamo nella mente la “filosofia” ermetica o quella “Saggezza” da cui Boezio fu consolato.
    Le filosofie moderne sono sistemi chiusi che usano il metodo della dialettica e che danno per stabilito che gli opposti siano mutualmente esclusivi. Nella filosofia moderna le cose sono così o non sono così; nella filosofia eterna questo dipende dal nostro punto di vista. La metafisica non è un sistema, bensì una dottrina coerente; non si interessa dell'esperienza condizionata e quantitativa, bensì della possibilità universale. Quindi, considera possibilità che non possono essere né possibilità di manifestazione né possibilità formali in alcun senso, così come insiemi di possibilità che possono essere realizzati solo in un dato mondo. La realtà ultima della metafisica è una Identità Suprema nella quale si risolve l'opposizione di tutti i contrari, compresa quella dell'essere e del non-essere; i suoi “Mondi” ed i suoi “Dei” sono livelli di riferimento ed entità simboliche e non luoghi o individui o altro che non siano stati dell'essere realizzabili dentro di noi.
    Da - Il Vedānta e la Tradizione “Occidentale”-, The American Scholar, VIII (1939), pp. 226-227.

    I VEDA, SAGGIO SULLA TRADUZIONE E L’ESEGESI
    INTRODUZIONE
    Le traduzioni esistenti dei testi vedici, per quanto siano etimologicamente “esatte”, sono spesso inintelligibili o troppo implausibili, a volte sono incomprensibili anche al traduttore stesso. Per esempio, nei “Sacred Books of the East”, ne le traduzioni delle Upanişad come quelle di R. E. Hume, o quelle su Mitra di Roer e Cowell, non si avvicinano minimamente neanche da vicino ai criteri stabiliti per opere come la versione delle Enneadi di Plotino di Thomas Taylor, o quella della “Guide for the Perplexed” di Maimonide di Friedländer. I traduttori dei Veda non sembrano avere posseduto alcuna previa conoscenza di metafisica, piuttosto avrebbero estratto le loro prime ed uniche nozioni di ontologia dalle fonti sanscrite stesse. Come osservava Jung, in Psychological Types, p. 263, con riferimento allo studio delle Upanişad nelle condizioni esistenti, “una vera percezione della profondità completamente straordinaria di quelle idee e della loro sorprendente esattezza psicologica non è ancora che una possibilità remota.”
    È evidente che per una comprensione dei Veda, la sola conoscenza del sanscrito, pur molto profonda che sia, è insufficiente. Gli indù stessi, per quel che riguarda i Veda, non si fidano della loro conoscenza del sanscrito ed insistono sulla necessità assoluta dello studio ai piedi di un guru. Non è possibile agli studiosi europei avvicinarli nello stesso modo, tuttavia l'Europa possiede anche una tradizione spiegata dei principi originari: quella mentalità che, nei secoli XII e XIII, diede la nascita ad un cristianesimo intellettuale che deve tanto a Maimonide, ad Aristotele ed agli arabi come alla Bibbia stessa, non avrebbe trovato “difficili” i Veda.
    Per esempio, quelli che comprendevano che “La paternità e la filiazione… sono proprietà dipendenti”, o che Dio non può essere una Persona senza una Natura, né la sua Natura può essere senza una Persona”, Mastro Eckhart I.268 e 394 , o che avessero letto più tardi queste parole di Dante “Oh Vergine Madre, figlia di tuo Figlio”, Paradiso XXXIII, non avrebbero visto nella mutua generazione di Puruşa e Virāj, o di Dakșa ed Aditi un modo di pensiero arbitrario o primitivo. Coloro che erano abituati alle concezioni cristiane della Divinità come “vuoto, “nudo” e “come se non esistesse” non si altererebbero per le descrizioni del Sé come “Morte” (Mŗtyu), e come non-essere “in nessun modo” (neti neti).
    Per quelli che perfino oggigiorno hanno un idea del Sé intesa come “riconciliazione” degli opposti, o che hanno compreso parzialmente la relazione tra la consapevolezza cosciente dell'uomo e le fonti incoscienti delle sue facoltà, potrebbe essere evidente il significato delle Acque come una “sorgente inesauribile” delle possibilità di esistenza. Quando Blake parla di un “Matrimonio tra il Cielo e l'Inferno”, o quando Swinburne scrive, “ ti prego solo che sia”, in ciò c'è implicito più di quello che può si si può trovare in molte loro disquisizioni erudite sulla “filosofia” nei Veda. Che motivo hanno i sanscritisti a confinare i loro lavori alla soluzione di problemi linguistici? È la paura quella che impedisce loro di comprendere l'ideologia dei testi che affrontano? La nostra erudizione è certamente un po’ fumosa.
    Quello che ho richiamato qui un “nuovo avvicinamento ai Veda”, non è nient'altro che una prova di esposizione delle idee vediche per mezzo di una traduzione e di un commento in cui si diano per scontate le risorse ad altre forme della tradizione universale.
    Nel 1891, Max Müller sosteneva che i Veda continueranno ad occupare gli eruditi “nei secoli venturi” ma, nel frattempo, oltre agli eruditi di professione, ci sono altri per cui i Veda significano molto.
    In qualsiasi caso, non ci si può aspettare che si compia una grande apertura della nostra comprensione presente se partiamo solo dell'investigazione filologica, per quanto tal metodo di investigazione possa essere stato prezioso nel passato e quello che è vero per la religione sumero-babilonese non è meno vero per i Veda, cioè che «non possono essere fatti ulteriori progressi nell'interpretazione del difficile ciclo di [...] liturgie finché il culto non viene interpretato più profondamente dal punto di vista della storia della religione'.
    Per quel che riguarda la traduzione: ogni parola qui impiegata è usata espressamente rispetto al suo significato tecnico. Per esempio, il termine “natura” è sempre correlativo di “essenza” e denota ciò per cui il mondo è così com'è; qui non si usa mai, come nell'uso colloquiale moderno, per denotare il mondo come ens naturata. Analogamente, qui si distingue tra l'esistenza e l'essere, tra la creazione e l'emanazione, tra il movimento locale ed il principio del movimento, tra ciò che è incalcolabile e ciò che è infinito, e così via. Tutto ciò è assolutamente necessario se si deve trasmettere il senso dei testi vedici. Inoltre, le poche parole che sono state aggiunte per completare il senso della traduzione sono in corsivo: e quando si impiegano varie parole per tradurre un solo termine sanscrito, queste sono connesse generalmente con trattini, e.g., îditya, “Sole-Supremo “; Akśara, “Parola-imperitura.”
    Per quel che riguarda il commento: qui ho usato semplicemente le risorse sulle scritture vediche e cristiane allo stesso modo. Un uso esteso delle fonti sumere, taoiste, sufi e gnostiche sarebbe stato contemporaneamente possibile ed illuminatore, ma avrebbe ampliato lo studio oltre i limiti ragionevoli. In quanto alle fonti vediche e cristiane, ognuna di esse illumina l'altra. Questo è in sé stesso un contributo importante alla comprensione, perché come ben disse Whitman, “Questi sono realmente i pensieri di tutti gli uomini in tutte le età ed in tutte le terre, non sono originali miei. Se non sono vostri tanto quanto miei, non sono niente, o quasi niente.” Sia quel che sia quello che si afferma o si nega rispetto al “valore” dei Veda, almeno una cosa è certa, sapere che le sue dottrine fondamentali non sono in modo alcuno uniche.
    ANANDA K. COOMARASWAMY.
    Museum of Fine Arts, Boston, dicembre 1932.
     
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    Bŗhadāraņīyaka Upanişad, I.2*
    (= ŚATAPATHA BRAHMANA X, 6, 5)
    1








    Il nostro testo tratta dell'origine della Luce dall'Oscurità, della Vita dalla Morte, dell'Attualità dalla Possibilità, del Sé dal Non-sé, dal Brahman Saguņa dal Brahman Nirguņa, del «Io sono» dall'Incoscienza, di Dio dalla Divinità:
    “La prima assunzione formale nella Divinità è l'essere… Dio”, Mastro Eckhart I.267.
    “Il Niente si introduce in sé stesso dentro una Volontà”, Boehme XL Questions concerning the Soule I.178;
    “una volontà eterna sorge dal niente, per introdurre il niente dentro qualcosa, affinché la volontà si trovi, sentirsi e si contempli da sé stessa”, Signatura Rerum I.8.
    “Il Tao divenne l'Uno”, Tao Tê Ching II.42.
    Si confronti la Taittirīya Up.t II. 7 svayam akurut' ātmānam «da se stesso ha assunto il Sé», con svayambhū, «auto-diventare», Upanişads/passim; Maitrī Up. V.2 e II. 5,
    «All'inizio questo mondo era Inerte e Buio (tamas) ... e procedette alla differenziazione (vişvamatva) … come il risveglio di un dormiente.»
    Questo è il «risveglio passivo» di Eckhart:
    “l'inizio del Padre è primario, non procede”, “il Padre è la manifestazione della Divinità”, 1.268,267 e 135.
    Proprio come relativamente al microcosmo:
    “Senza dubbio, la coscienza deriva dall'inconscio” (Wilhelm e Jung).
    Per quel che riguarda l’«Uno»: una distinzione intelligibile può essere fatta tra l'Unità incommensurabile di Dio “senza un secondo” o Ipseità divina e l'Identità Divina di Dio, mūrta e amūrta Brahman:
    “tra i pilastri del conscio e dell'inconscio ... tutti gli esseri e tutti i mondi “, Kabir, Bolpur ed. 11.59;
    “Uno e uno uniti, c'è l'Essere Supremo”, Eckhart, 1.368.
    Che queste siano qui distinzioni “razionali, non reali” (Eckhart, 1.268) appare nel fatto che “Uno” può essere pronunciato ugualmente per Unità, Ipseità (sameness=omogeneità) e Identità: Deità, Dio, Divinità, non è una distinzione delle Persone.
    D'altra parte, “Uno” non può essere detto della Trinità in quanto tale.
    Queste distinzioni, necessariamente e chiaramente fatte nell'esegesi, quando interpretate letteralmente, diventano definizioni di punti di vista settari, teisti, nichilisti e metafisici: nel bhakti-vada l'Unità, nel śūnya-vada l’Ipseità (sameness=omogeneità), in jnāna-vāda l'Identità sono rispettivamente pāramārthika, la designazione ultima. Nei culti śākta sopravvive un'ontologia che precede i modi di pensiero patriarcali, e la relazione dei principi congiunti rovesciata (viparīta) nel genere: qui Siva, inerte, non effettua nulla da sé, rappresenta la Divinità, mentre Śakti, Madre di tutte le cose, è il potere attivo, che genera, preserva e risolve, Līlā non è “Lui” ma “Lei”. Nel “misticismo” c'è una realizzazione emotiva di tutti o di tutti questi punti di vista. In realtà,
    “il sentiero che gli uomini prendono da sempre è mio”, Bhagavad Gita, IV. 11,
    “In qualunque modo tu trovi Dio è meglio e sei più consapevole di lui, se persegui in quel modo”, Eckhart, I.482.
    Va osservato inoltre che quando in teologia parliamo di Prima, Seconda e Terza Persona, queste Persone sono connesse* per opposizione ma il numero, l'ordinamento delle Persone è puramente convenzionale (samketita), non un ordine cronologico o reale di venuta all'esistenza: poiché le Persone sono con-nascenti, itaretarajanmāna, la Trinità (tridhā) è un accordo (samhita), non un processo. Per esempio, il Figlio crea il Padre tanto quanto il Padre il Figlio, perché non può esserci paternità senza filiazione, e viceversa, e questo è ciò che si intende per “relazione opposta”. Allo stesso modo, non può esserci una Persona (Puruşa) senza Natura (Prakŗtī), e viceversa. Ecco perché nella “mitologia” metafisica incontriamo “inversioni”, come per esempio, quando nel Ŗg Veda, X.72.4, Dakșa** nasce da Aditi come suo figlio, e anche lei nasce come sua figlia; o X.90.5, dove Virāj nasce da Puruşa, e viceversa. La metafisica è coerente, ma non sistematica: il sistema si trova solo nelle estensioni religiose, dove un dato ordinamento delle Persone diventa un dogma ed è precisamente da tali “questioni di fede”, e non da una differenza di basi metafisiche, che una religione si distingue da un'altra.
    Questa è veramente una “distinzione senza differenza”.
    Bisogna osservare che Padre-essenza e Madre-natura con-nascono (sahajanma) simultaneamente, sono «due forme» del Brahman e sebbene metaforicamente si parli di “nascita” (Janma), non è una generazione sessuale, né una generazione da principi coniugali, maithunya prajanana: in questo senso entrambi sono ugualmente non-sposati e non-nati, come in Svetāśvatara Up., 1.8. dvāvajau, o come implicito nella Brihadāranyaka Up., 1.4.3 dove l'origine dei principi congiunti è detta un “cadere a pezzi”, o “divisione” o “cariocinesi”*, “dvedhā-pāta”.
    “Uno divenne Due”, cioè Yin e Yang, Tao Te Ching, 11.42.
    D'altra parte, il loro Figlio comune, Agni o Brahmā-Prajāpati, ecc., Essendo consustanziale con lo Spirito (prāņa) è allo stesso tempo non-nato e nello stesso senso nato da una generazione dei principi congiunti. È pensato come un “evento” che si svolge all'alba di un ciclo creativo, all'inizio= agre[=avanti].
    Rispetto a kam, 'Delizia', 'Affermazione': Volere (kāma) o Fiat (syād= avverbio, che sia, potrebbe essere) sono il potere mobile (dakșa, reriva) in tutte le progressioni (krama, prasaraņa), kāma è la volontà-di-vita,
    «così grande davvero è kāma», Brihadāranyaka Up., 1.4.17.
    La Volontà, kāma, è un nome essenziale di Dio; è per sua volontà che la sua forma-intrinseca (svarūpa) firma e sigilla la natura-intrinseca (svabhāva= stessa esistenza), la Natura da parte sua desidera la forma.
    Quindi la sola Volontà della Divinità può essere considerata da due punti di vista, rispetto all'essenza come lo spirito della Volontà e rispetto alla natura come Desiderio: come Gandharva e Apsara (= Urvaśī, Ŗgveda, VII.33.11 e Āpya , X.13.4, Kāmadeva e Rati, Eros e Psyche, cfr Vişņu Purāņa, 1.8.20 e 33, dove Nārāyana è «amore» (kāma, lobha, rāga) e Sri-Lakșmī è «desiderio» (icchā, tŗśña, rati).
    Questi due aspetti della Volontà sono chiaramente visti nella «leggenda» vedica della nascita di Vaśişţa, e nel passaggio di Pañcavimśa Brāhmana citato più avanti, p. 36. Nel primo caso Mitra-Varunau è letteralmente sedotto dal fascino dell'Apsaras Urvaśī; nel secondo, le Acque sono letteralmente “in calore”. Dio così si afferma perché è la sua natura che deve venire fuori: l'esistenza è la sua conoscenza di se stesso, cioè il suo mangiare il frutto dell'albero, perché mangiare è esistere.
    In altre parole, la possibilità dell’esistenza implica necessariamente il fatto di esistere: questa è precisamente la sua onnipotenza che è priva di potenzialità (non realizzate) e non è mai in ozio, anche se non lavora mai. Né agisce involontariamente: beve il veleno (visa) e l'obiettività (visamata) dell'esistenza e le sue delizie e ne è bruciato e annerito. Si vedrà che non è possibile tracciare una vera distinzione in linea di principio tra la Caduta di Dio e quella dell'uomo: entrambe sono le necessarie conseguenze di una natura divina comune ad entrambi. Il peccato e la vergogna, la virtù e la gloria dell’esistenza sono Sue tanto quanto nostre. La differenza tra noi e lui è che egli rimane consapevolmente coinvolto ma nello stesso tempo è al di la dell’Essere-Sé-stesso mentre noi siamo consapevoli solo del nostro sé.
    È una corrente che nello stesso tempo sorge e fluisce: siamo le sue onde, dimenticandoci che anche l'onda è acqua. Il nostro unico errore è quello di vedere distinzione: colui che comprende, ya evam vidvān, conosce se stesso non più come un'onda, ma come mare lui-stesso, ritorna con la marea alla fonte che né lui né il Sé supremo hanno mai veramente ma solo razionalmente, lasciato.
    La Volontà procede come Amore:
    «per via della Volontà come Amore», San Tommaso, Sum. Theol, I, Q. 36, A. 2;
    «l’effusione reciproca di amore ... è la spirazione comune del Padre e del Figlio», Eckhart, 1.269. «Desideriamo una cosa quando non la possediamo. Mentre l'abbiamo, ci piace ma il desiderio svanisce», Eckhart I.82.
    Poiché non c'è nulla che Lui non possegga in se stesso, che non proceda dalla potenzialità dell’agire, è tutto atto, la sua volontà è il suo amore,
    «L'eternità è innamorata delle produzioni del tempo», Blake, cf. Ŗgveda, VII.87.2.
    Questa è la Sua affermazione e gioia, kam, ānanda,
    «Dio stesso gode in tutte le cose ... trova che il suo riflesso sia molto piacevole», Eckhart, 1.243 e 425, cf. pramudam prayāti, Sankaracarya, Svatmanirupana, 95.
    I Veda non parlano di un inizio nel tempo, né di una creazione ex nihilo, 'In principio non significa «in un dato momento», né di una vicenda ma di un sempre-presente ora, di cui l'esperienza empirica è impossibile, essendo la conoscenza umana solo del passato e l'aspettativa umana solo del futuro: agre è prima nell'ordine, primordiale, in principio, piuttosto che prima del tempo.
    «In principio, questo mondo era solo acqua», Brihadāranyaka Up V.5.1;
    cioè tutte le possibilità dell'esistenza, non ancora in esistenza ma non impossibili all'esistenza, non inattuabili come le corna di lepre o il figlio di una donna sterile. Dire che il mondo non era, che non c'era alcuna cosa, o come nella Genesi che tutto era “senza forma e vuoto”, non vuol dire che non ci fosse nulla. Ciò che era si chiamava pradhāna, mūla-prakŗti, l'acqua, l'oscuro-inerte (tamas) e con molti altri nomi: ciò che non era è il mondo, la vita, l'esistenza, la molteplicità, la varietà, l'ens naturata, i Tre Mondi.
    Per quanto riguarda la concezione della divinità nel nostro testo: Mŗtyu, la morte, è la mancanza di vita e la mancanza di vita, nella fraseologia tecnica di San Tommaso, è
    «mancanza di una forma intrinseca», Sum. Theol, II, Q. 6, A. 2
    «Un prodigio, e non è essere ... (ma) prima del movimento e prima dell'intelligenza», Plotino, Enneadi, VI.9.6.
    Dunque la Divinità, Morte-Assoluta, è anche chiamata privazione: poiché “Quello” è « indistinto» (anirukta), invisibile (adŗśya), non egoista (anātmya), senza luogo (anilayana) terreno (pratisthā)”, Taittiriya Up ., II.7.
    «Niente di vero può essere detto di Dio»,
    «'Dio non è né questo né quello»,
    «Conosci di lui qualcosa? Egli non è tale», Eckhart, 1.87.211 e 246:
    «che non ha basi su cui stare, e dove non c'è posto in cui dimorare ... potrebbe essere paragonato a nulla», Böhme, Vita Supersensuale.»
    Un modo di parlare così negativo è inevitabile: perché qui la negazione, neti, neti,” «non così, non così», è una negazione delle condizioni limitanti, un doppio negativo; non come noi, che «abbiamo la negazione innata» che siamo diversi da noi stessi, un'affermazione di condizioni limitanti. Quindi la divinità è
    “vuota”, è “luce e oscurità o liberazione da entrambi”, “in bilico su se stessa nella calma di sabbia”, è “inattivo”, “non fa né questo né quello”, è “povero, nudo e vuoto come se non lo fosse”; “non ha, non vuole, non vorrà”, “buio immobile”, Eckhart, 1.267-70, 368, 369, 381.
    Aśanāyā, «volere», è privazione del “cibo”, il mezzo dell'esistenza.
    Quindi, nella lingua delle Upanişad, “mangiare cibo”, annam, significa “vivere”, “esistere”, “funzionare”, “energizzare”, “essere modellato” (-maya) o “naturale”.
    A differenza di Dio, la morte, Dio vive, perché tutte le cose sono il suo “cibo”. Quindi,
    “il cibo è la forma suprema (rūpa) del Sé, il cibo il modo (-maya) dallo Spirito (prāņa, qui “respiro della vita”). . . dal cibo sono i generati (prajāh) nascono (prajāyante) ... è grazie al cibo che vivono (jīvanti), e lì a loro tornano finalmente', Maitrī Up., VI. 11; e «anche lui ha manifestato la luce»;
    «buio inanimato ... questa oscurità è la natura incomprensibile di Dio ... la prima sorgere in questo è la Luce ... (e) questo splendore dell'essenza, supremo, puro, rivela e illumina tutte le cose contemporaneamente ... l’evidenza del suo potere, risplende nei dettagli luminosi», Eckhart, 1.369.373.366.399.
    O come esprime il nostro testo, di lui,
    «non appena brilla», era “Nato” dalle Acque, per appunto “portato alla luce”;
    «Illumina (bhāsayati) questi mondi. . . dipinge di rosso (rañjayati) le esistenze qui», Maitrī Up., VI.7.
    «Per colui che conosce così», ya evam vidvān, Colui che comprende: con questo costante ritornello le Upanişad introducono invariabilmente una dichiarazione dei valori immediati e trascendenti della conoscenza precedentemente impartita. Proprio come Eckhart, ad esempio, dopo aver descritto la processione dello Spirito come Vita:
    «fluisce dallo Spirito ed è del tutto spettrale e in questo potere Dio esce nel pieno fiore della gioia e della gloria, come è in se stesso»,
    aggiunge
    «se si fosse sempre ricordato in questo potere un uomo non invecchierebbe mai», 1.291;
    o nelle parole di Böhme, «Il mago ha potere in questo Mistero», Sex Puncta Mystica, VI.2.
    Il professor Edgerton ha ammirevolmente dimostrato come i Veda non sono mai alla ricerca della conoscenza fine a se stessa, ma in quanto la comprensione è considerata come sinonima di pienezza, potere e libertà.  
    2.
    Il “primo giorno della creazione” è quindi descritto come il riflesso (ābhasa) di un'immagine di luce (bhārūpa) nello specchio delle possibilità ancora inesistenti dell'esistenza: questo è la Lucentezza del Brillare, arkasya arkatva,
    Dante: «……………perché suo splendore
    potesse, risplendendo, dir “Subsisto”», Paradiso, XXIX.14 e 15.
    Cfr. Ŗgveda, X.82.5 e 6, dove i vari angeli sono visti insieme (samapaśyanta) in Una Proiezione (arpitam) dall'ombelico del Non-Nato (cioè Varuna) mentre giace germinale (garbha), sdraiato (uttānapad) sulla superficie delle Acque; nel Pañcavimśa Brāhmana, VII.8.1:
    «Fin quando le Acque arrivano alla loro stagione. Lo Spirito li portò indietro e da quel momento divennero una cosa giusta, loro stessi Mitra-Varunau massa visibile (paryapaśyata)».
    «Egli brilla su questo mondo nella forma di uomo», imam lokamahhyārcat purusarüpena, Aitareya Āranyaka, II.2.1.
    Così in Genesi “lo Spirito di Dio si spostò sulla superficie delle Acque” e “creò l'uomo a sua immagine”;
    «da questo riflesso della sua natura divina l'intelletto del Padre modella o pronuncia se stesso ... la sua luce, il suo intelletto che scorre allo spirito, brillava su questo mondo-cosa in cui il mondo sussisteva nel Padre nella semplicità ma senza forma creata», Eckhart, 1.397 e 404;
    «E questa è l'Immagine e la Somiglianza di Dio, e la nostra Immagine e il nostro Somiglianza; perché in esso Dio riflette se stesso e tutte le cose», Ruysbroeck, Dell'ornamento delle nozze spirituali, III.
    Dante, «La gloria di colui che tutto move
    per l’universo penetra, e risplende
    in una parte più e meno altrove. » Paradiso, 1.1-2 e
    Quella circulazion che sì concetta
    pareva in te come lume reflesso,
    da li occhi miei alquanto circunspetta,
    dentro da sé, del suo colore stesso,
    mi parve pinta de la nostra effige:
    per che ’l mio viso in lei tutto era messo. Paradiso XXXIII. 127-31.
    «Perché Dio è Dio che ottiene dalle creature», e «Io ti ho amato nel riflesso delle mie tenebre», il «riflesso dello specchio nel sole è nel sole», Eckhart, 1.274, 377 e 143:
    «come quando un uomo contempla il suo volto in uno specchio», Böhme, Clavis, 42 e 43.
    O da fonti indiane,
    «Senza di te non ho una forma intrinseca, senza di me tu hai un'esistenza», Siddhāntamuktāvalì LII;
    «senza Śiva non c’è Devi, senza Devi non c’è Śiva», Kāmakalāvilāsa, Commento, citazione di un āgama con riferimento al testo,
    «Lei è lo specchio puro in cui Siva vede la propria forma intrinseca.»
    Questa concezione della relatività di Dio , “Gegenwurf” di Böhme, che potremmo chiamare prākaśa-vimarśa-vāda, “dottrina di luce e riflessione”, implica che il Fuoco che risplende come Luce è un calore oscuro fino a che, e contemporaneamente illuminato dal contro-splendore, conduce a sviluppi di importanza fondamentale.
    Che Dio sia creato dall'uomo, “prende le forme immaginate dai suoi adoratori” (Kailaya-malai, Ceylon National Review, gennaio 1907, pagina 285), che le sue forme
    “sono determinate dalla relazione che sussiste tra gli adorati e l'adoratore”
    (Śukranītisāra, IV, 4, 159),
    dà all'uomo il diritto di adorarlo in qualsiasi modo per cui è più consapevole di lui e nega il diritto dell'uomo di parlare di “altri” dei “falsi”.
    Le Acque e la Terra devono essere intese non solo in riferimento ai nostri mari e continenti terrestri ma come, rispettivamente, alle possibilità di esistenza in ciascuno dei Tre Mondi e al sostegno degli esseri viventi esistenti in ognuno di essi secondo i termini delle sue possibilità: in altre parole, le 'Acque' sono letteralmente il “peut être”, bhavişya, la Terra qualsiasi piano o sfera corrispondente (loka, dhātu, kşetra, bhūmī) o supporto (pratişţhā) di esperienza: e qualsiasi Terra simile fluttua come un loto, o come schiuma, o come una nave, sulla superficie delle Acque in cui è stabilita.
    Il movimento dello Spirito con cui le Acque sono agitate non è di per sé stesso un movimento locale ma in effetti è locale, così che la superficie delle Acque viene scossa da onde e quindi il riflesso della Luce si moltiplica, si contrae e si identifica in varietà. Aitareya Āranyaka, II.1.7:
    “Quanto lontano le acque si estendono, tanto lontano Varuna si estende,
    così lontano si estende il suo mondo”,
    così afferma la dottrina fondamentale dell'identità del “possibile” e del “reale”.
    L'impegno e l'intensione* non sono facili da spiegare: entrambi implicano una volizione , il secondo (tapas) è precisamente l'ebraico Zimzum.**
    TAPAS non è una penitenza, perché non è espiatorio, ma piuttosto un'angoscia e una passione: un calore oscuro della coscienza, un accendersi non una fiamma, o per prendere un'analogia dalla Fisica, un innalzamento del potenziale al punto d’innesco. Percezione di una combustione lenta: la continenza e la fermentazione intellettuale, così come l'incubazione vegetativa, il paragone è implicito. Tejas e rasa sono forme di energia, rispettivamente ardente e fluida: tejas il fuoco dell'amore e dell'ira, rasa l'elisir, la tintura o l'acqua della vita. Tejas come elemento corrisponde in parte a 'flogisto'
    'Scoppia come il fuoco'; poiché: 'l'Eterno Padre si manifesta nel fuoco ... questo flagrat (arde) si realizza nell'accensione del fuoco nell'essenza dell'angoscia', Bohme, Signatura Rerum, XIV. 38 e 31, “con l'accendere il fuoco (salnitral flagrat) si separano due regni, cioè, l'eternità e il tempo”, ibid., VII.8, cfr. 'Il fuoco stesso, cioè il primo principio nella vita, con cui si separano 'il mondo della luce e del buio, ibid., IV.8.
    Inoltre: “un terzo maestro ha detto che Dio è in fiamme. Anche lui parla veramente, anche se in modo
    somigliante. Perché il Fuoco è il più nobile in natura e il più potente in azione tra gli elementi non riposa mai fino a raggiungere il cielo. È molto più ampio e più alto di Aria, Acqua o Terra, comprende tutti gli altri elementi in sé “,
    Eckhart, da Schittenberg e Predigten di Biittner, 1923, II, p. 144.
    Agni, “Fuoco”, appare nelle liturgie vediche come la designazione preferita del Principio Primo-manifestato, da un lato a causa della natura ignea del Sole-Supremo, e dall'altro a causa della primaria importanza del fuoco nel rituale sacrificale. Nel nostro testo (2 e 3) il Fuoco divino è accennato da due diversi punti di vista,
    1) prima come principio indiviso, come anche specificamente in Ŗgveda, 1.69.1, dove Agni è il “Padre degli Angeli” e V.3.1, dove Agni è Varuna ‘quando nasce’, e Mitra ‘quando è acceso’, ‘in Lui sono i Diversi Angeli’, ed Egli è Indra per l'adoratore mortale;
    2) in secondo luogo, come un membro della Trinità di ‘Agni, Āditya, Vāyu’.
    Quest'ultimo Agni, come Figlio di Dio, è comunemente chiamato Vaiśvānara, “Universale”, con riferimento alla sua manifestazione nelle regioni terrestre, intermedia e celeste ed è preminentemente “Primo nato” e “Più giovane” perché eternamente portato alla luce nel fuoco sacrificale all'alba di ogni ciclo temporale e all'alba di tutti i giorni.
    In ogni caso, è un'Energia di Fuoco elementare (tejas) che sta alla base e caratterizza tutte le altre manifestazioni: così in sequenza:
    “l'energia di fuoco (tejas), forma intrinseca del firmamento, nel vuoto dell'uomo interiore, determinato dalla Trinità Fuoco-Sole-Supremo-Spirito, che sono i tre fattori della Parola Imperitura, OM, germoglia, balza in piedi e sospira (o fiorisce) come un roveto ardente, l'onnipervadente albero della vita, Maitrī Up., Vedi pp. 60-1.
    Che andrebbe confrontato con Isaia, XI. 1.2,***
    “Egredietur virga de radice Jesse et flos de radice ejus ascendet et requiescet super cum spiritus domini, così commenta Eckhart,
    “Radice di Jesse è un termine per la natura ignea di Dio ... .Jesse significa fuoco e bruciare; significa il terreno dell'amore divino e anche il fondamento dell'anima. Da questa terra cresce la verga, cioè nella più pura e alta; spunta da questa terra vergine quando spunta fuori il Figlio.. Dalla verga si apre un fiore, il fiore dello Spirito Santo”, 1.153.154.302.29
    Allo stesso modo Böhme,
    “L'intero uomo è i tre mondi nel suo essere. Il centro dell'anima, cioè la radice del fuoco dell'anima, contiene il mondo oscuro; il fuoco dell'anima contiene il primo principio come il vero mondo del fuoco. È l'immagine nobile, o l'albero della crescita divina, che è generata dal fuoco dell'anima e germoglia attraverso feroce morte adirata nella libertà o nel mondo della luce, contiene il mondo della luce o il secondo Principio. Il corpo, che all'inizio fu creato dalla sostanza mista che alla creazione nacque dal mondo della luce, dal mondo oscuro e dal mondo del fuoco contiene il mondo esterno o il terzo Principio misto, Sex Puncta Mystica, V. 28.”
    Qui il primo, il secondo e il terzo Principio corrispondono alla Trinità di Fuoco, Sole Superiore e Vento, e alle proprietà, tamas, sattva e rajas.
    RASA è la vita vegetativa ricca di linfa degli alberi e delle piante, un colore nella pioggia, l'elisir della vita, la rugiada del Soma che gocciola dall'albero del mondo, seme in tutto ciò che riproduce la loro specie, è il sapore in tutte le cose mangiate o bevute e il principio della bellezza nell'arte. Rasa è l'energia fertilizzante (raitasa), l'intelletto 'fluente', come per esempio nel Ŗgveda, 1.164.8, dove Madre Terra, partecipando a Padre-Cielo, è “pervasa dalla tintura” (rasā nividdhā), e il Vitello (= Agni) è generato.
    'Capisco qui il sale virtuale nella vita vegetale', Böhme, Signatura Rerum, IX.22.
    Cf. il Logos spermatikos degli stoici.
    “Ha effettuato in se stesso una Trinità (tridhā): un terzo Fuoco (agni), un terzo Sole-Supremo (āditya), un terzo Vento (vāyu)”. 
    3.
    'Una Trinità', che è il principio del Fuoco in qualsiasi Terra, della Luce in ogni Paradiso, del Movimento in qualsiasi Firmamento. Questa basilare Trinità angelica di tre Principi o Persone è costantemente lodata, continuamente citata nei Veda e nelle Upanişad.
    'Una di questi falcia (cioè Agni) quando il tempo di un anno è compiuto; uno di loro (cioè Āditya) con i suoi poteri sorveglia i mondi; di uno di loro (cioè Vāyu) si vede il suo spazzare ma non la sua somiglianza', Ŗgveda, 1.164.44. Maitrī Up., IV.5-6, può essere citato come:
    • “Fuoco (Agni), Vento (Vāyu) e Sole-Supremo (Āditya)
    • Cibo (anna), Spirito (prāņa), Tempo (kāla)
    • Rudra, Brahmā, Vişņu
    ... queste sono le forme di realizzazione primarie (tanu) del Brahman trascendentale (para) e incorporale (aśarīra).
    Cf. “Ora il fuoco è la prima causa della vita; e la luce è la seconda causa; e lo spirito è la terza causa, eppure c'è solo un'essenza. . . che si manifestò se stesso ', Bohme, XL Domande riguardanti l’Anima, 1.276.
    Ora rispetto alle tre Persone di questa Trinità:
    • Āditya è il Sole-Supremo', la 'Persona Dorata 'nel Sole, fonte immediata di luce accecante (sarūpa jyoti), consustanziale con il Brahman reale e senza forma (amurta, nirabhasa), che è molto luminoso (jyoti), poiché “quella luce è la stessa del sole superno”, Maitrī Up., VI.3; il nome personale è Vişņu, ha una natura sattva, perché tiene le cose in essere.
    • Vāyu, il Vento, è il Sé ipostatizzato come Respiro della Vita, consustanziale con il Brahman, Spiritus, prāņa, il cui respiro è in se stesso, non-respirato (avāta, Ŗgveda, X.129.2), despirato (nirvāta buddista); qui il nome personale è Brahmā (Prajāpati, ecc.) che è consustanziato con rajas, essendo la Persona progenitrice, che dà ad ogni esistenza la sua estensione nello spazio.
    • Agni è qui specificamente la natura ignea, a volte chiamata l'ira di Dio, divoratrice e trasformatrice di tutte le esistenze: il cui nome personale è Rudra, Śiva, ha una natura tamas, poiché ogni cambiamento è un morire, un'uscita di forma individuale nella notte oscura della non esistenza.
    Allo stesso tempo questa Trinità è un Essere, a cui in quanto tale, uno di questi nomi personali può essere applicato direttamente; le funzioni sono descritte, piuttosto che divise nelle Persone.
    “Sebbene lodati separatamente, questi tre Signori del Mondo sono di un solo io e di una Natura comune” (Bŗhad Devatā, 1.70-4):
    “quell'unità dei vari angeli è Agni” (Ŗgveda, V.3.1);
    o qualsiasi membro della Trinità può stare per tutti, come quando in Ŗgveda, 1.115.1, il Sole-Supremo (Surya) è chiamato il Sé dell'Universo, o Vāyu allo stesso tempo in X.168.4.
    Prāņa, Spiritus, Pneuma, Vita (il ch’i Taoista, ruh Islamico) è un nome essenziale del Sé, come Padre o come Figlio: non come nella teologia cristiana, una Persona distinta, sebbene sotto ogni altro aspetto equivalga allo “Spirito Santo”. In processione, per mezzo della volontà come principio del movimento, il prāņa viene spesso definito come vāta o vāyu, vento o aria: o come i respiri della vita in tutte le esistenze, lo Spirito diventa molteplice, in particolare cinque volte (Aitareya Āranyaka, II .3.3, Taittiriya Up., 1.7, Svetāśvatara Up., 1.5, ecc.).
    Prāņa, Vāyu, Vāta, è il Forte Vento dello Spirito che inizia a soffiare all'alba di ogni ciclo di manifestazione: in tal modo la superficie vetrosa delle Acque viene agitata da onde, ognuna delle quali riflette il Sole-Supremo, creando un multiforme Splendore o contro-splendore, che è l'immagine del mondo. Quel vento dell'alba non è specificamente menzionato nel nostro testo, ma è implicito nella menzione dello Spirito, e quando si dice che la Terra diventa dalla schiuma delle Acque. Quindi sorge uno dei problemi fondamentali della teologia,
    “Perché soffia il vento dell'alba della creazione, e come mai soffia? Diciamo “akāmayat,” per volontà di Dio”
    ma questa è più una descrizione che una risposta. Perché la sua Volontà non è una volontà arbitraria, un incidente dell'essere, come se avesse bisogno di qualcosa, ma inevitabile ed essenziale: come lo esprime Eckhart,
    «non pensare che Dio sia come un falegname umano, che lavora o non lavora come sceglie, che può fare o lasciare incompiuto per il suo piacere. Non è quindi con Dio .. .. Egli deve fare, volente o nolente» 1,23 e 263,
    cfr. Saddharma Puņdarīka, XV (prosa),
    “il Tathagata fa ciò che-deve-essere-fatto”, kartavyam karoti. L'idiosincrasia* di Dio è sia il lavoro eterno che il riposo eterno. Non può fare diversamente da ciò che lui è: poiché la sua onnipotenza non può estendersi alla possibilità di essere altro o qualcosa di meno di lui, non può fare ciò che non è stato, perché tutto ciò che è stato è Lui Stesso ed esiste per Lui Stesso così come tutto il futuro.
    Non è troppo difficile capire che
    “la volontà di Dio per la creatura era solo una, cioè una manifestazione generale dello spirito”, Böhme, Signatum Rerum, XVI.25,
    Swinburne “Tu mi hai comandato di essere”. Ma il dono della vita, “nella sua esplicitazione e manifestazione procede dall'eternità all'eternità in due essenze, cioè nel male e nel bene”, Böhme, ibid., 20;
    nessuna manifestazione (vyañjana) è concepibile se non in termini di coppie di opposti, dvandvau.
    Ma come è determinata la distribuzione del bene e del male nel mondo?
    Questo è un problema nodoso, perché non possiamo immaginare l'energia eterna mentre predilige o favorisce le figure del suo spettacolo di marionette: né d'altra parte qualsiasi cosa esistente è diventata semplicemente ciò che è per semplice caso, “esistenza” e “causalità” sono concetti connascenti dell'intelletto. Forse con nostra sorpresa scopriremo che il problema è stato trattato in modo simile dai teologi indù e cristiani. La tradizione indiana, in tutte le sue forme, sostiene che l'individuo da solo è responsabile di tutto il bene o il male che gli accade; egli ottiene, come si dice colloquialmente, proprio quello che sta venendo a lui, che lui “chiede”. Come espresso nell'Aitareya Āranyaka, II.3.2, yathāprajñam hi sambhavāh,
    “sono nati secondo la misura della loro comprensione”,
    cfr. anche Kausītaki Up., 1.2, yathävidyam.
    “Il tempo, la natura intrinseca, la necessità, l'incidente, gli elementi e l'ascendenza (yoni, purușa) possono essere posti (come cause delle specie naturali) ma nella misura in cui la natura del Sé non è una combinazione di questi, il Sé non è il Reggitore (īśa) di ciò che causa piacere e dolore ...”
    “il Sé che assume ogni forma non è anche il plasmatore delle forme ', Svetāśvatara Up., 1.2 e 9.
    Quindi la Chāndogya Up., VIII. 1.4, sottolinea che le esistenze generate (prajāh) lasciano il loro dovere anusāsana (letteralmente “ciò che è decretato”, sâsana che ha qui la forza di “legge naturale”, la “legge del cielo”, dharma, ŗta): nella misura in cui le esistenze individuali dipendono dal vivere (upajìvanti) a modo loro e nel modo in cui desiderano finire (yam yamantam-abhikāmah).
    Allo stesso modo la nostra Upanişad, IV.4.5-7 e 22, riassume:
    “in base alle sue opere, determinate da una volontà buona o cattiva a seconda dei casi, e sebbene possa raggiungere i suoi fini, ogni uomo deve ritornare di nuovo dall'altro mondo a questo: solo chi è senza desiderio, il cui desiderio si realizza, il cui desiderio è il Sé-Stesso, raggiunge il Brahman, non c'è né ragione né torto che potrebbe interessarlo, evita sia il merito che il demerito punyapāpa, dharmādharmau.”
    Allo stesso modo Sańkarācārya, Vedānta Sūtra, II. 1.32-5, Nel commento, sostiene che l'ingiustizia non può essere imputata al Brahman per quanto gli atti non siano indipendenti da lui: per quel che riguarda (sāpekşa) merito e demerito (dharmādharmau), il Brahman è la normale causa del divenire di tutte le cose ma non delle distinzioni, queste distinzioni sono determinate dalle “varie opere inerenti alle rispettive personalità”. Abbastanza o quasi d'accordo con questo, San Tommaso, distinguendo il Destino dalla Provvidenza, afferma che “è manifesto che il destino è nelle stesse cause create”, Sum. Theol, I, Q. 116, A. 2. Böhme è persino più definito:
    “Come è l'armonia, cioè la forma della vita in ogni cosa, così è anche il suono o il tono della voce eterna in essa; nel santo, è santo, nel perverso, è perverso e ciò è determinato dalla turba che Adamo prese dalla sua immaginazione e che viene nel mondo con ogni forma individuale dello spirito, “appeso ad esso”, quindi nessuna creatura può incolpare il suo creatore, come se lo avesse reso malvagio”, Signatura Rerum, XVI. 6 e 7 e XL Domande riguardanti l’Anima, VIII.14.
    Paragoniamo anche Dante paradiso, XVII.37-42,
    'La contingenza, che non si estende oltre la pagina della materia: è tutta rappresentata nell'aspetto eterno; anche se non ne prende la necessità, non più di una nave che fluttua lungo il fiume (dipende da) quell'immagine in cui è specchiata.
    «La contingenza, che fuor del quaderno
    de la vostra matera non si stende,
    tutta è dipinta nel cospetto etterno:
    necessità però quindi non prende
    se non come dal viso in che si specchia
    nave che per torrente giù discende.
    Tutto ciò che segue naturalmente dalla conclusione che né il bene né il male possono avere, in quanto tali, alcun posto nel puro essere: quel punto di vista, è così costantemente mantenuto nelle Upanişad, Bhagavad Gitā e nel Buddismo, che la citazione di una coppia dei passaggi sarà ampiamente sufficiente. Lui, Brahman, è “altro che giusto e sbagliato” (dharmādharmau), e “quando un mortale ha strappato ciò che è giusto (dharmya) e Lo riceve come non dimensionato (anu), allora si rallegra”, Katha Up., 11.13 e 14:
    “Il Signore del mondo non emana né azione né azioni, né la congiunzione di azione e ricompensa, ma è la natura di ogni cosa che opera. Il Signore non accetta né il male né il ben fatto di alcun uomo”, Bhagavad Gitā , V. 14-15.
    Nel cristianesimo, oltre a ciò “fa risplendere il suo sole allo stesso modo sui giusti e sugli ingiusti”, troviamo Eckhart parole intransigenti: “dovrei lasciar andare la virtù se vedessi Dio faccia a faccia”,
    “Dio non è né buono né vero”, “la visione di Dio trascende le virtù”, “gioie e dolori non sono gettati nella terra della verità eterna”, là, “non c'è traccia di vizio o virtù”; “Non c'è nulla di libero se non la prima causa”, 1.144.272.273.467.374.146. Se non fosse così, non si potrebbe parlare di “giusto”.
    Quindi il vento dell'alba della creazione deve essere pensato come di doppia origine:
    1) uno dello Spirito, che si muove senza movimento o qualsiasi perché,
    2) l'altro azionato da e per gli eventi passati.
    Non ci si propone di discutere qui in dettaglio la dottrina della reincarnazione, punar apādana, punarāvŗtti, daremo per scontato che nella sua forma originale e pura questa dottrina implicasse semplicemente un ritorno dall'esistenza angelica a quella corporea, in accordo con una legge naturale (sāsita, ŗtvya, dharmya) che colpisce tutti coloro che non hanno per gnosi (jnāna, vidyā) già raggiunto un'emancipazione totale (ati-mukti), né intrapreso il viaggio angelico (devayāna) dell'emancipazione progressiva ( krama muktī), e così non sono mai fuggiti, né hanno modo di sfuggire alla schiavitù delle opere desiderabili (kāmya karma) che sono i fattori determinanti del merito e del demerito (dharmādharmau, punyar papa). Diamo per scontato anche, ciò che è forse meno certo, che il ritorno (punar avartana, avasarpana, ecc.) era originariamente concepito come non avvenendo immediatamente, ma in un altro eone, e sotto una nuova dispensazione: in un altro manvantara, o yuga, o kalpa , o anche in un altro para con la risurrezione del cavallo cosmico, la nascita di un altro Brahmā-Prajāpati.
    È a questo ultimo ritorno e risurrezione che siamo principalmente interessati. Accettando le premesse suddette, è abbondantemente evidente che Brahmā-Prajāpati, purușa, Figlio, Primo Sacrificatore, Cavallo Cosmico e Albero della Vita, nella misura in cui come essi esistono in e per i Tre Mondi, in nessun modo si può pensare che siano esentati dalla legge universale della causalità latente, pūrva o adŗşţa karma.
    Per le opere di Prajāpati, i suoi sacrifici gemelli (yajña), sono preminentemente kāmya, desiderosi:
    “Prajāpati che desidera prole (prajākāmya) si sacrifica”, Śatapatha Brāhmana, II.4.4.4.
    Inoltre si comporta come un Patriarca (pitŗ) e come tale non si può immaginare nessun altra via o destino per lui se non quello dei Patriarchi, la pitriyāna poiché la divinità assume la mortalità con tutte le sue conseguenze: quindi nella Brihadāranyaka Up., II. 3.1, il Brahman in una somiglianza (mūrta) è giustamente chiamato mortale, martya, i suoi 'cento anni' sono tutto il tempo, ma non il senza tempo. Anche questa concezione della sua mortalità viene echeggiata da Eckhart,
    «Dio viene e va. . . Dio passa», «prima che le creature esistessero, Dio non era Dio»,
    «tutte le persone che si aggirano nella loro natura svaniscono nell'oscurità del loro essere interiore», 1.143.218.469;
    “Diventano uno”, Aitareya Āranyaka, II.3.8,
    “dove tutta l'esistenza diventa un nido”, Mahānārāyana Up., II.3.
    Pertanto, poiché la divinità nel mondo è vincolata dalle opere, dalla sua volontà o provvidenza tuttavia essendo comunque giusto (dharmya) ma relativo alla “volontà ordinaria” basata sulla predilezione, non è libero: pensato come Ŗtaspati o Dharmarāja , ancora non è al di sopra della legge, non ingiusto.
    Il libero arbitrio, nel senso letterale delle parole, rappresenta una contraddizione di termini: come l'Upanişad, citata sopra, esprime, e come anche i buddisti asseriscono decisamente, le esistenze dipendono sempre da qualcosa(upajīvanti), gli schiavi dai loro desideri e ciò vale sia per i desideri buoni che cattivi, per l'uomo e per il Dio incarnato.
    La libera volontà dell'uomo consiste solo nella libertà di non volere, nella libertà di ritornare al centro del suo essere, per identificare la sua stessa volontà con la Sua volontà che
    “lavora volentieri ma non per volontà, naturalmente ma non per natura”, Eckhart, 1.225.
    La volontà ordinaria si estende solo a determinati beni; ma
    “la potenzialità della volontà si estende al bene universale… proprio come l'oggetto dell'intelletto si estende all'essere universale “, San Tommaso, Sum. Theol, I, Q. 105, A. 4;
    quindi, come Rumi lo esprime,
    “Chi non si è arreso alla volontà, non avrà volontà”.
    Il libero arbitrio non è nell'ordine della natura: è autonomo (svarāj) e conosce il Sé (atman), ma
    “coloro la cui conoscenza è diversa da questa sono eteronomi* (anyarājāh), i loro sono mondi perenti, in nessuno di tutti i mondi sono mossi a volontà (kāmacārah; Chāndogya Up.,VII.25.2).
    Anche se ci sembra che questo comprometta la libertà (adititva), la signoria (aiśvarya) o la Persona-che riveste-il-Sé come appare nel mondo (mahātmya), tanto più maestoso, più desiderabile, diventa quel Volere che è davvero libero, la sua volontà “di cui la Volontà è lui-Stesso”, come egli è “solo con sé-Stesso”, ēk jō āpai āp, Kabir: “l’intento del sé”, e “ama solo se stesso”, Eckhart.
    “Perché con l'Occhio che accompagna quella Volontà, Lui come sovrintendente del karma e noi che abbiamo rinnegato le nostre virtù, indistinti e unanimi con Lui, siamo in grado di osservare l'immagine del mondo e di trarne un piacere infinito: quell'immagine è la sua e la nostra eterna commedia e passione, la sua līlā che ha ereditato in Lui-Sé, il nostro-sé. C'è sempre stata questa commedia nella natura del Padre ... giocata eternamente prima di tutte le creature. . .gioco e giocatori sono la stessa cosa”, Eckhart, 1.148
    “non che questa gioia sia iniziata con la creazione, no, perché era dall'eternità nel grande mistero, ma solo come una melodia spirituale e gioco in sé. La creazione è lo stesso gioco fuori di sé, cioè un piano o strumento dello Spirito Eterno”, Böhme, Signatura Rerum, XVI.2-3.47
    Due trinità (tridha) sono menzionate: bisogna comprendere che entrambe sono manifestate (vyakta) e intelligibili (jneya) ma la prima (Fuoco, Sole-Supremo e Spirito) è informale (arūpa), la seconda (i Tre Mondi: Terra, Cielo, Firmamento) formale (rūpa) e percepibile (dŗśya). Questa Trinità è chiamata “disposizione”, dhā. Nella Taittirīya Up., 1.3.1-4, dove vengono spiegati cinque aspetti della Trinità fondamentale, viene usato il termine Samhitā, “raggruppamento”. Eckhart parla allo stesso modo della Trinità come di un “arrangiamento” e di un “discorso articolato”, essendo le Persone “illuminazioni della comprensione”.
    Nel nostro testo il corpo della Trinità è concepito a somiglianza di un cavallo.
    “Supponi che tu sia Varuna o un destriero ... che sfreccia con le ali su sentieri giusti e senza polvere”, Ŗgveda, 1.163.4 e 5, e Taittiriya Samhitā, IV.6.7.
    Varuna era l'antico nome dell'Essere Supremo, Āditya, Sole-Supremo, Figlio-della-Libertà. Il cavallo cosmico è descritto più completamente nel primo adhyaya della nostra Upanişad e corrisponde ad Atharvaveda, X.7.32-4.
    Il Sole è il suo occhio,
    il Vento il soffio delle sue narici,
    il Fuoco Universale la sua bocca aperta,
    l'Anno il suo corpo,
    stelle le sue ossa,
    nuvole la sua carne
    e porta angeli, cori, titani e uomini attraverso la parte inferiore (apara)
    mare delle possibilità dell'esistenza,
    il mare è il suo parente (bandhu),
    il suo grembo (yoni).
    In una simile somiglianza Eckhart parla delle delizie di Dio:
    “La gioia e la soddisfazione di essa sono ineffabili. È come un cavallo libero in un prato lussureggiante che dà sfogo alla sua natura di cavallo galoppando gioioso su di un prato: gli piace, ed è la sua natura. Proprio nello stesso modo la gioia e la soddisfazione di Dio nei suoi simili trovano sfogo nel riversare tutta la sua natura e il suo essere in questa somiglianza, poiché egli stesso è simile a lui “, 1.240;
    da confrontare con Ŗgveda, VII.87.2,
    Varuna, “La Tempesta del Tuo Sé tuona attraverso il firmamento come un cervo indomito che prende il suo piacere nei campi”.
    Questa è una somiglianza (mūrti) e una figura (pratīka) connaturale a quella dell'Albero della Vita o a quella della Ruota del Mondo: una figura o immagine dell'Essere Divino in estensione, che pervade lo spazio, non dimenticando che il luogo di questo spazio (ākāśa) è nel loto del cuore.
    Con il divenire del corpo del cavallo cosmico, anche quello dei Tre Mondi è stabilito (pratişţhā) nelle Acque. Il resto dell'āditya spiega l'ulteriore divenire del mondo in termini di generazione ed enunciazione, e rispetto alla mortalità, al sacrificio e alla rigenerazione.
    Il sacrificio del cavallo è una imitazione della passione divina e della rigenerazione e colui che comprende, chi capisce questo dramma, ya evam vidyāh, ha compiuto il sacrificio e quindi partecipa ad una vita più abbondante, sia qui ora nella carne, che là, oltre l'eternità.
    4

    Così, la Divinità già autoproclamata come Intelletto, volle andar oltre nell'esistenza. Perché da solo e in se stesso, il Padre è un Intelletto privo di intelletto, un'energia che non eccita: la sua paternità è attualizzata solo dalla filiazione di un Figlio. L'Anno, Prajāpati, il Cavallo è il Figlio di Dio generato. Questa è la comprensione che Dio ha di se stesso, io sono quello che sono, la concezione dell'intelletto paterno e della Parola materna;
    “La comprensione appartiene al suo potere paterno”, Eckhart, 1.364.
    “Il generato (prajā) è la combinazione (sandhi) di questi principi congiunti, generando (prajanana = maithuna) i mezzi (sandhāna)”, Taittirīya Up.t 1.3.3.
    Che l'Anno, Brahmā-Prajāpati, lo Yakşa nell'albero della vita e il Cavallo Cosmico, mortali per natura e immortali nella loro essenza, siano la stessa cosa dell'incarnazione del Figlio unigenito di Dio, che è morto come Gesù ma che è relativo al Logos e al Cristo Eterno nel seno del Padre è a priori evidente da molti punti di vista, per esempio nella processione della generazione e negli atti del sacrificio volontario di “se stesso a se stesso”.
    “Chi vede Me, vede il Padre”
    può essere paragonato a Maitrī Up. VI.4 e VII11, dove l'Unico Illuminatore (eka sambodhayitr), l'Albero Singolo (eka asvatthā), è chiamato “una base eterna per la visione del Brahman”.
    Dal punto di vista della religione comparata, dal Suo punto di vista
    chi “non si è lasciato senza un testimone', Atti XIV. 17,*
    e per quanto spiacevole possa essere la persuasione individuale, il Messia è una Persona.
    Che l'equivalenza tra i Figli vedici e cristiani di Dio, di cavallo e agnello, per esempio, non sia ancora più evidente dipende principalmente dalla diversità di scala nell'immaginario. L'incarnazione indiana dell'unigenito Figlio è cosmica: è umano (pauruşya) solo idealmente come Uomo Eterno, l'unico specchio di tutte le esistenze ed è non umano (mānisa) come uomo tra gli uomini. Mentre il Figlio cristiano di Dio è presentato storicamente con le sembianze di un uomo tra gli uomini, nato da una donna tra le donne, alla maniera degli avatāra terrestri, a cui han dato nomi come Rama o Gautama. Lo stesso vale in ogni caso in cui una religione sembra essere stata stabilita da un singolo Fondatore; per esempio nel buddismo, dove ci viene dato di capire che l'uomo Gautama, Siddhartha, divenne Illuminato (Buddha) in un dato tempo e luogo. Questi punti di vista storici e locali sono in seguito trascesi: e quando si è capito che la nascita di Cristo è eterna, che l'illuminazione del Tathagata “risale dall'inizio dei tempi”, allora diventa non solo evidente, ma può essere accettato senza angoscia, che tutte le formulazioni alternative (paryāya) siano espressioni di una stessa Parola o Saggezza.
    Queste considerazioni sono di fondamentale importanza per una corretta teologia comparata. Poiché da un lato l'Anno, Brahmā-Prajāpati, non è né più né meno un “demiurgo” di quanto non sia il Cristo-Logos
    “che causa l'intera emanazione” e “effettua tutte le cose”, Eckhart, 1.130 e 382
    e dall’altro, viene affermato che la concezione di questo Cristo, questo Brahmā come l'unico generato
    «non avrebbe mai potuto avere un solo Figlio perché egli non è altro che la sua comprensione. Se avesse avuto un migliaio di figli sarebbero stati lo stesso Figlio», Eckhart, 1.131,
    che vale per i Prajāpati e i Buddha di eoni coestesi, per Prajāpati, Tammuz, Herakles, Horus, Cristo, o “l’Idea di Muhammad” in qualsiasi eone. Troppa attenzione è stato posta sull'umanità di Gesù: era meglio ricordare la sua perfezione. Quel che è diventato non era “un uomo” ma ha assunto una natura umana: la natura non di vir ma di homo, non più maschio che femmina.
    «Tu sei donna, tu sei l'uomo ... le stagioni e i mari», Svetāśvatara Up., IV.3A (cfr Aitareya Āranyaka, II.3.5):
    «Questo campione o leone non è uomo o donna, ma è entrambi», Böhme, Signatum Rerum, XI.43.
    Troppa attenzione è stata posta sulla sua nascita in Galilea: in realtà
    “non c'è un tempo in cui questa nascita non sia stata”
    “questa nascita è trattenuto nel Padre eternamente ... e pronuncia in una sola Parola tutto ciò che sa, l'intero di ciò che può permettersi in un solo istante e quell'istante è eterno”. Eckhart,1.81,132:
    «Conosceva, in effetti, se stesso, cioè: “Io sono Brahman” e in tal modo divenne il Tutto», Bŗhadāraņīyaka Up., 1.4.10.
    Concepirlo quindi non come uomo ma come Uomo Universale, Persona, Fuoco o Luce: o per un confronto più facile, come l'Agnello di Dio, perché potrebbe essere più facile comprendere che l'agnello sacrificale e il cavallo o toro sacrificale sono equivalenti illuminazioni della comprensione:
    Agnus Dei, Agni Deva.
    Per quanto riguarda mithuna, “coppia progenitrice” e maithuna, “generazione”: la generazione può essere definita solo in riferimento alla reciprocità dei principi congiunti; questi, qui come anche nella teologia cristiana, sono il Conoscente e il Conosciuto, l'Atto e la Potenzialità della Comprensione:
    “lo Spirito Santo è stato ottenuto nella Parola con questo stesso Intelletto”, Eckhart, 1.381 e 407, “quello con cui il Padre genera è la natura divina ... come quella con cui genera il generatore”, San Tommaso, Sum. Theol, I, Q. 41, A. 5.
    Il nostro testo dà per scontato il secondo dei principi congiunti, la Parola o Conoscenza non detta (senza suono), vāc: ma sappiamo da altre fonti abbondanti che Lei è la Natura divina, Prakŗtī, Aditi, Virāj, le acque. Lei è il silenzio in divinità, ogni possibilità e promessa di esistenza, il mezzo con cui Lui può, il pozzo inesauribile della sua abbondanza ma in quanto Dio e divinità, il cielo e la terra, l'essenza e la natura sono una cosa sola in lui: è un'emissione di seme non solo da parte dell'intelletto, una gravidanza non solo nella parola che deve essere capita.
    È la divinità, non una delle Persone separatamente che è incinta, “Egli” produce.
    Retas, “seme”, non è solo versato, ma diventa la progenie generata, così per esempio parliamo del “seme di Abramo”; lo si confronti con il racconto della generazione nell'Aitareya Āranyaka, II.5, l’identità del Sé (con-sustanzialità) di padre e figlio asserita qui e altrove.
    Il figlio “non è una cosa nuova ma il seme stesso dell'uomo e della donna ed è solo allevato nell’unione, è così come un ramoscello cresce dall'albero” ', Böhme, XL Domande riguardanti l’anima, VIII. 18.
    Nell’Aitareya Up., IV. 1, retas, seme è identificato con tejas, l’Energia-Ardente: altrove, ad es. Mānava Dharmaśāstra 1.8, vīrya, “virilità”, “virtù”, è un altro sinonimo. Il seme era probabilmente considerato il veicolo dello Spirito, prāņa, poiché
    “è prāņa, in verità il Sé come pura Intelligenza, che afferra e anima la carne”, Kauşītaki Up., III.3:
    che si avvicina molto al punto di vista cristiano:
    “la formazione del corpo preso dal Figlio è attribuita allo Spirito Santo … proprio come il potere dell'anima che è nel seme, attraverso lo spirito racchiuso in esso, modella il corpo nella generazione di altri uomini”, San Tommaso, Somma. Theol., III, Q. 32, A.1.
    Le Persone della Trinità sono giustamente nominate: sebbene non ci sia una “reale” ma solo una possibile relazione di Persone nella Divinità antecedente alla processione, solus ante principium, tutta la tradizione è d'accordo che la nozione di generazione, presa dalla nostra conoscenza delle cose viventi, è rispetto al Figlio analogicamente appropriata. La coerenza richiede quindi la diversità del sesso nei principi congiunti invocati: come esplicitamente nella nostra Upanişad, 1.5.7:
    «Il Padre è l'Intelletto (manas), la Madre la Saggezza (vāc), lo Spirito il figlio (prāņa).
    La saggezza, vāc, è giustamente femminile nel pensiero vedico, poiché è la natura divina, le acque antecedenti alla loro controparte luccicante: mula-Prakŗtī. È l’oscurità indifferenziata, passiva: non distinta dal il Padre nell'unità, ma distinta da lui nell'atto eterno della generazione, come il mare è dal sole. Quindi la Madre è la seconda Persona della Trinità Vedica, come il Figlio, l'Anno, Prajāpati, è logicamente la terza. Lo Spirito, prāņa, non è qui una Persona distinta, ma principalmente un nome essenziale del Padre e in ipostasi, un nome essenziale del Figlio. La processione dello Spirito è naturalmente una spirale (samīraņa): ma quando lo Spirito, la Vita, diventa un nome essenziale del Figlio, allora la processione, ipso facto, deve essere chiamata filiazione. In questo senso, la nascita del Figlio è un atto diviso:
    “Sono uscito dalla bocca dell'Altissimo, per uscire dalla concezione naturale della parola essenziale del Padre divino”, Eckhart, 1.269;
    e nella teologia islamica , la “nicchia di Maometto” è allo stesso tempo lo Spirito di Allah e suo figlio.
    La dottrina vedica del Logos si riflette meglio in greco che nella dottrina cristiana ortodossa.
    Il problema è troppo complesso per una discussione completa qui ma si può notare che i termini Vedici ŗtam e dharman sono “neutri” (aliņga, “senza genere specifico” ma senza escludere la possibilità di genere), devono essere pensati come nomi essenziali equivalenti al Brahman più tardo e alla Parola Imperitura (akşaram) OM, anche epicene;* in altre parole, la dottrina del Logos indiano non esclude l'unità dell'Essenza e della Natura, né la loro distinzione come principi congiunti collegati in processione congiunta per generazione o espressione.
    Si capirà che la “teologia” vedica tiene conto di due Trinità distinte.
    Nell'unico accordo (Agni, Āditya, Vāyu - Rudra, Vişņu, Brahmā) le Persone si distinguono per la loro natura (i guna caratteristici sono tamas, sattva e rajas); i nomi sono essenziali e le relazioni reciproche e reversibili, in modo che si possano pensare a due a due come aspetti o emanazioni del primo, senza alcun ordine logico di manifestazione. Nell'altro accordo (Sole Supremo e Acque - o Cielo e Terra - e Agni Vaiśvānara o Ayus - Śiva, Śakti, Kumāra - manas, vāc, prāņa, ecc.), Le persone si distinguono per le relazioni naturalmente progenitrici, in quanto Padre, Madre e Figlio e i nomi assumono un carattere più personale: c'è un ordine logico di processione.
    Le trinità cristiane e indiane possono essere giustamente paragonate quando si comprende che mentre il Padre, il Figlio e lo Spirito cristiani corrispondono direttamente a Āditya, Agni Vaiśvānara e Vāyu (la processione è in via di enunciazione o di spirazione, non di una generazione). Padre e Figlio, quando si parla di quest'ultimo come generato dalla generazione da “principi congiunti” (San Tommaso, Sum. TheoL, I, Q. 27, A. 2), o come “la sua comprensione di se stesso”, corrispondono anche a manas e prāņa, o ad Agni e Agni Vaiśvānara (“nato dalle acque” o “nato dalla terra” e la cui natura è esemplare). Manca, quindi, nella formulazione cristiana, quando il Figlio è pensato come naturale e generato, quella Persona che dovrebbe essere il secondo dei “principi congiunti”, i cui principi non possono essere altro che la sua Essenza e la sua Natura; nessuna “saggezza” o “Natura”, corrispondente a vāc o Prakŗtī, è riconosciuta come Persona nella disposizione cristiana di Dio.
    È vero che Cristo assume la natura carnale - “è naturato”- dalla Vergine Maria, che è quindi chiamata la “Madre di Dio”, ma ciò non è rispetto alla sua eterna processione ma semplicemente rispetto alla sua nascita occasionale in Galilea. Astrattamente dalla sua casuale generazione, Cristo è senza madre. È solo in effetti e tacitamente, se non sotto protesta, che con l'assunzione e l'incoronazione della vergine e la mariolatria in generale, che Madre Natura, Saggezza, natura naturans, Prakŗtī, vāc, Maya, viene restituita al suo trono nuziale.
    Ciò è reso esplicito quando Eckhart dice che:
    “è Dio che ha il tesoro e la sposa in lui”, 1.381,
    “i desideri della divinità con la Parola”, 1.388,
    “dall'abbraccio del Padre, dalla sua stessa natura viene l'eterno gioco del Figlio”, 1.148,
    dove la comprensione personale mantiene la sua unità della natura e ha rapporti con essa,
    “là la natura del Padre ha nomi materni e fa il lavoro della madre, perché è esclusivamente compito della madre ricevere il seme della Parola eterna”
    e nella luce divina
    “stava sempre Maria, portando il suo divino figlio”, 1.404,
    ciò è quel che ne consegue naturalmente se prendiamo che la nascita di Cristo sia eterna.
    Nulla qui contraddice che lo Spirito sia la comune spirazione, l'amore comune e il reciproco rispetto delle Tre persone.
    Nella nostra Upanişad, 1.1.2, tasya samudre yonih,
    “nel mare è il suo grembo”,
    può essere paragonato a sant'Agostino, Sermonae, 124,
    “processito. . . de utero virginali;
    Eckhart è
    “nella camera spoglia del cuore vergine della loro nave prescelta Maria… dal caos emerse un'anima spirituale splendente “, 1.463.464;
    e Petrarca,
    “Vergine bella, che di sol vestita,
    coronata di stelle, al sommo Sole
    piacesti sì, che ’n te Sua luce ascose,...
    “al Sole Supremo tu sembrasti così bella, che in te nascose la sua Luce”,
    un notevole parallelismo con i molti passaggi vedici in cui gli angeli sono rappresentati come in cerca del Sole o Fuoco nascosto, e trovandolo riflesso o nato nelle Acque.
    Dante, «Vergine Madre, figlia del tuo figlio,…
    termine fisso d'etterno consiglio,…
    Nel ventre tuo si raccese l’amore,
    per lo cui caldo ne l’etterna pace
    così è germinato questo fiore.», Paradiso XXXIII.
    Un'ideologia “tantrica” di questo tipo è tipicamente sviluppata nella concezione gnostica di Sophia come Eone primordiale, e specialmente nello gnosticismo valentiniano, dove il Propatrio di Bythos ha per sua “śakti” Ennoia, “Pensiero”, o Sige, “Silenzio” da cui sono stati generati Nous e Aletheia come primi principi di manifestazione. Infine, si può osservare che nel linguaggio sistematico della Bŗhad Devatā e del Nirukta, il Padre sarebbe chiamato celeste, la Madre ctonia e il Figlio una divinità aerea.
    “Per tutto il tempo dell'anno”:
    quel lungo tempo sarebbe uguale alla “notte” del sonno profondo del Brahman, distinto dal “giorno” o “anno” successivo del risveglio del Brahman, durante il quale il cavallo corre libero, come spiegato nella settima stanza. Cf. Mānava Dharmaśāstra, 1.12, tasminnaņde sa bhagavanuşitvà parivatsaram.
    “L'Anno è Prajāpati”, Maitrī Su., 1.5.14:
    «l'Anno, in verità, è Prajāpati, è il Tempo (kāla), il luogo di nidificazione (nīda) del Brahman Stesso ... questo Tempo formale è il grande oceano delle esistenze generate (praja) ... questo intero universo qui, e qualunque cosa di buono o di guai possa essere vista in esso ... colui che offre e allo stesso modo colui che riceve le offerte ... Vişņu, Prajāpati», Maitrī Up., VI. 1516,
    «il Brahman ha due forme, il tempo (kāla) e il senza tempo (akāla)», ibid.
    Cioè, mentre il Figlio“rimane dentro come essenza e procede come Persona ... le cose fluiscono nel tempo finite mentre dimorano all'infinito nell'eternità ... in questa immagine, tutto è Dio; aspro e dolce, buono e cattivo, tutti sono uno in questa immagine”, Eckhart, 1.271.285.286.
    «La morte si è sparsa su di lui», cioè sull'Anno appena nato, ora Dio ha assunto la mortalità, Nirŗtim ā viveśa, Ŗgveda, 1.164.32:
    esistenza, vita, è una modalità dell'essere naturalmente soggetto alla mortalità,
    «sicura è la morte per i nati, certa è la nascita per i morti “, Bhagavad Gìtà, 11.27,
    cfr. la visione della Divinità è come il Tempo che divora tutto, cap. XI.
    «Ha emesso un grido»:
    vale a dire, «il nome nascosto con cui hai generato tutto ciò che è e sarà», Ŗgveda, X.55.2,
    parlando (vāc) pronuncia davvero la Parola (vāc), Brihadāranyaka Up., 1.1 .1, Cfr. Ŗgveda, 1.163.1,
    «La tua grande nascita dal Pleroma (purīśa) e dal mare (samudra), O Destriero, deve essere magnificata, in quanto hai nitrito (akranda) quando sei nato, di chi sono le ali del falco e delle membra del cervo?»
    e Taittiriya Samhitā, IV.2.8,
    «Quando hai pianto per la prima volta, la schiuma è sorta dal mare, che è la tua famosa nascita, O Destriero».
    «All'inizio questo (universo) era indefinito (avyahrta)», Maitrī Up., VI.6;
    ma con quella espressione (vyāhŗti) di Prajāpati, in cui tutte le cose sono chiamate con i loro nomi essenziali, la loro esistenza fu riversata (asŗgram),
    “poiché tutte queste esistenze sono Principi (manas, “Intelletto”), Pañcavimśa Brāhmana, VI.9.14.20.
    “Uno dovrebbe sapere che tutti questi versetti (ŗc), tutti questi Veda, tutti i suoni, sono semplicemente una sola espressione (vyāhŗti), in verità Spirazione (prāņa), Spirazione in verità dei versi, Aitareya Āranyaka, II.2.2.
    Proprio come nel cristianesimo,
    “Dio non disse altro che una sola parola”, Eckhart, 1.148,
    “questa sola Parola comprendeva tutte le cose”, 1.377,
    poiché “la Parola del Padre è la sua comprensione di sé 1.146”, “Lo stesso Padre parlò e tutte le creature erano nella Parola ... tutte le creature in suo Figlio”, 1.377,
    o ancora:
    “Primo fuori dal Padre, uscì fuori il Figlio, piccolo ma così potente nella sua forza divina che fu lui a causare l'intera emanazione. La seconda sortita è il primo angelo, che seguì energicamente il primo evento. Accelera rapidamente ... così carica di potere che data un migliaio di mondi in più di cui sarebbero stati portati a desiderare prima che il primo problema fosse stato speso ... Un unico lancio con il mondo un lenzuolo d'acqua e l'acqua non sarebbe riuscita prima i circoli si spensero, “Eckhart, 1.130.  
    5.
    La prima parte continua il pensiero della stanza precedente e ha bisogno di poche spiegazioni.
    “Meno cibo”, cioè meno vita.
    “Con quella Parola, da quel Sé”, cioè dalla bocca dell'Anno, Prajāpati, e qui dobbiamo intendere un nitrito del Cavallo.
    “Cominciò a mangiare: questa è la Morte, la Divinità, cominciò a vivere, ad esistere come Dio. Come abbiamo già visto, l'essere esistente di Dio dipende dal suo mondo esistente, non meno di quanto l’esistenza del mondo dipende da lui, ognuno suppone l'altro. Non nella relazione causale, ma nella reciprocità e nella simultaneità, qui non c'è distinzione se non spandimento e effusione. . . sono un solo stesso Dio ... generatore e improvvisamente generato”, Eckhart, 1.72.
    È quella stessa bocca infuocata che pronuncia tutte le esistenze e dove si affrettano a tornare indietro; nella nostra Upanişad, 1.1.1, “La bocca aperta del fuoco Universale”, cf.
    Per quanto riguarda la "Libertà", adititva, di Aditi: questo è il significato fondamentale del nome Aditi, l'antica dea-madre, il supremo potere femminile nei Veda (e.g. Ŗgveda, 1.89.10), seconda Persona della Trinità, Mahādevī e Śakti di testi successivi. Aditi è la madre-compagna di Varuna, che è nato da Lei, sebbene non per generazione, è pre-eminentemente Āditya, Figlia dell'Infinito e del Sole-Supremo: Madre Natura, la stessa di Virāj, "Luce Sovrana" da cui tutte le cose ‘mungono’ le loro virtù specifiche e il loro funzionamento corretto (Atharvaveda, VII. 1, Vm.9-10 e IX. 1). È vāc, il mezzo di espressione, Āpah, le Acque, tutte le possibilità dell'esistenza, non-limitata (a-diti) da condizionamenti particolari; Mahamāya.
    La Magia di Böhme,
    ‘una madre in tutti e tre i mondi e rende ogni cosa dopo il modello della volontà di quella cosa ... una creatrice secondo la comprensione e si presta al bene o al male ... fondamento e supporto di tutte le cose ", Sex Puncta Mystica, Vl 1 e 20:
    “Tao”, come “Madre di tutte le cose”, Tao Te Ching, 1.1.
    “Contenuta nel Padre come natura. . . pertanto egli è onnipotente ... poiché la Divinità ha tutte le cose in potere. . . (e) scorre nelle creature. Dà a ciascuno quanto può reggere: alle pietre la loro esistenza, agli alberi la loro crescita, agli uccelli la loro fuga, alle bestie i loro piaceri, agli angeli la ragione (sc. intelletto), all'uomo la natura libera (sc. libero arbitrio)”, Eckhart, 1.371-2:
    cioè, ad ogni esistenza, la sua stessa virtù e idiosincrasia.
    Quindi, nirguna Brahman, amūrta Brahman, sono la stessa cosa di Aditi, Virāj, le Acque; e la Bhagavad Gita è in completo accordo con la tradizione vedica quando dichiara
    "Il mio grembo (yonī) è il Grande (mahat = para = nirguna) Brahman; in esso concedo il germe (garbha), da cui deriva il divenire (sambhava) di tutte le esistenze", XIV.3;
    e inoltre, quando Kŗşņa, dopo aver elencato gli elementi materiali dell'esistenza, aggiunge:
    “Questo è la mia Natura (Prakŗtī) empirica (apara). Conosci la mia natura (para) trascendentale (Prakŗtī) come “altro” (anya), come gli elementi della vita (jiva-) per cui l'universo è tenuto in essere (dhāra-yate), sappi che questo è l'utero (yoni) di tutte le esistenze”, VII.5 e 6.
    Proprio come in Brihadāranyaka Up., 1.1.2, troviamo samudro yoni, corrispondente a Mundaka Up.t III.1.3, Brahmā-yoni, rispettivamente "il cui grembo è il mare", e "il cui grembo è (para) Brahman". L'esposizione di Kŗşņa alle sue due "nature" è perfettamente "corretta" (pramitī).
    Para e apara Prakŗtī equivalgono ad Acque superiori (parastāt) o Inferiori (avastāt) del Ŗgveda, III.22.3, ecc.; come i "due mari" di Varuna, che sono le sue "pance" o "grembi", udara, kukşi Atharvaveda, IV. 16,3; come i "seni gemelli" di Aditi: Madre e Frulla-Miele, da cui si "munge il ristoro" della vita, ibid., IX.I.7.
    6.

    Lui, cioè l'Anno, Prajāpati, il Figlio.
    Un "altro sacrificio" implica un precedente sacrificio: quella era la prima avanzata o emanazione nell'esistenza, l'assunzione di una natura personale (paurusya) e della mortalità. In tutte le descrizioni è un'incontinenza: "spendere" significa "morire" e nel prendere l'esistenza, Dio assume la mortalità: questa è la "debolezza" del Re Pescatore, il significato del mito del Graal.
    Utkram è usato per "andare avanti", proprio come nel nostro colloquiale "passare oltre". O rispetto alla morte naturale, sia volontaria che sacrificale come qui nel nostro testo, o involontario come nel nostro Upanişad, III. 2.11-12, e Kausītaki Up., 1.2.12-15: o in connessione con avataraņa, “l’apparizione sul palcoscenico della vita” di un avatāra, che è al tempo stesso una discendenza dal cielo in terra e una morte in cielo,
    "La sua uscita di là è il suo ingresso qui" , Eckhart, 1.132,
    "Cadendo nel tempo, cadono e svaniscono", ibid., 244.
    L'equivalente tecnico di (ut-) krama (= kramodaya, prasarana) è 'procedere, avanzare', rispetto ad avataraņa: come quando tejas, l'energia ardente, procede (utkramya) nell'albero della vita, mentre si dirama nello spazio, Maitrī Up., VII.11, o quando il Grande Yakşa che riposa sul dorso delle Acque è descritto come "per intensione" (tapasi krānta) nell'albero del mondo, Atharvaveda, X.7.38. Quello che uscì, quella incarnazione dell'Anno, Prajāpati, fu il "primo sacrificio".
    Ora, avendo assunto la carne nella forma corporea del cavallo cosmico o dell'albero del mondo, la divinità incarnata salverebbe dalla sua mortalità incalzata quel corpo che è la somma di tutte le esistenze. Egli soffre quindi una Passione, cioè, intensione e morte, cioè "l'ulteriore sacrificio"; come sottolineato nel verso conclusivo,
    "si è sacrificato a se stesso",
    e Ŗgveda, X.90.15, in cui gli "Angeli" (Persone della Trinità), agendo come sacerdoti sacrificali, "sacrificati con il sacrificio al Sacrificio".
    Quel concetto di sacrificio di sé e passione volontaria, intrapreso o sofferto fino alla fine perché la vita possa essere resa più abbondante, ricorre nei Veda e nelle tradizioni di molti popoli. Qui abbiamo bisogno di alludere solo al parallelo cristiano, la Crocifissione sull'Albero della Vita: la Croce, la santa Croce, è un “albero”, l'Albero della Vita, il suo tronco l'asse-albero dell'essere, le sue braccia o rami tutte le estensioni su ogni piano dell'essere,
    “il dono di Dio è l'esistenza positiva di tutte le creature nella Persona di suo Figlio”, Eckhart, 1.427.
    L'identità di Croce e Albero è troppo familiare per aver bisogno di una dimostrazione particolare qui, tuttavia la fraseologia di Böhme, Segnatura Rerum, XIV.32, può essere osservata:
    "Ora il lampo, quando è accolto dalla libertà e dal fuoco freddo, fa sorgere una croce con la comprensione di tutte le proprietà; poiché qui sorge lo spirito nell'essenza e sta così: Se tu hai qui comprensione, non hai bisogno di chiedere altro; è l'eternità e il tempo, Dio innamorato e irato, inoltre il paradiso e l'inferno."
    Altrettanto consonanti con il pensiero dei Veda e delle Upanişad sono i commoventi versi di Swinburne:
    L'albero dalle molte radici
    Che svetta verso il cielo
    Con fronde rosso frutta
    L'albero della vita sono io ...
    In me solo la radice è
    Che fiorisce nei tuoi rami. . .
    Il mio stesso sangue è ciò che tampona
    Le ferite nella mia corteccia ...
    L'efficacia del sacrificio rituale (karma, yajna), che il rituale intrapreso con un determinato fine in vista procura in modo sicuro tale fine, non è affatto negato nelle Upanişad. Il fine in vista, tuttavia, è un rinnovamento e un ingrandimento della vita, non un'assoluta emancipazione dalla mortalità. La sola conoscenza, che sei tu, è la realizzazione dell'immortalità, in o indipendentemente da qualsiasi qui o ora. Quindi c'è un sacrificio più alto, il suo, ya evarh veda, che intende il rito non solo come operazione imitativa, come una cosa per-formata ma nella sua forma intrinseca come una cosa non-formata, ri-trasformata, lì nell'estremo Empireo, il loto del cuore. E questo vale non solo per i rituali specifici, come il sacrificio di cavalli o l'offerta di soma ma per tutte le funzioni della vita, che se vengono intraprese ciecamente e intenzionalmente aumentano la somma della nostra mortalità ma se intraprese involontariamente e altruisticamente ma in modo egoistico e con una comprensione dei loro equivalenti spirituali e transustanziali, non sono affatto ostacoli ma piuttosto modi di illuminazione. Ciò che è qui coinvolto è la trasformazione (paravŗtti, abhisambhava), o in termini di psicologia, sublimazione: in estensione religiosa,
    "Tranne che un uomo rinasce".
    Tutto ciò che è ulteriormente sviluppato nella Bhagavad Gita, ad es. IV.27.32 e 33,
    “Altri pensano che il loro sacrificio sia il funzionamento dei sensi (indriya-karmāņi) e tutti quelli della vita (prāņa-karmāņi) e confidano nel fuoco della disciplina e dell’autocontrollo (ātmasamyogāgnau) e che venga acceso per saggezza (jñāna-dīpite) ... molti e vari sono i sacrifici così sparsi davanti al volto di Dio (Brahman), ma tutti questi sono per mezzo di opere, se lo capisci questo è la tua liberazione; meglio del sacrificio di qualsiasi azione è quello della saggezza, qui sono le opere annullate nella gnosi (jñāneparisamāpyate), mentre nulla rimane”.
    Ritornando più direttamente al nostro testo, ciò che era il corpo del cavallo subisce la corruzione e “si gonfia”, non è più un cavallo vivente, ma de-naturato [privato delle sue caratteristiche], il suo essere cavallo (asvatva) è uscito da lui. La carne è diventata "cibo" e vita per altre esistenze, come prima spiegato. L'intelletto, il principio dell'esistenza, il sé stesso nel Padre e nel Figlio, rimane incarnato, sebbene in un'altra natura e in altre singole esistenze o permutazioni (parināma): poiché Quello:
    “è indistruttibile, perpetuo, non nato, non eliminato, non ucciso quando il corpo viene ucciso”, Bhagavad Gita, 11.20 e 21.
    Quindi, proprio come abbiamo visto in precedenza, l'universo vivente non ha avuto un ‘primo’ inizio, così ora si afferma in un altro modo che l'universo non ha fine, sicut erat in principio, et nunc et semper, in saecula saeculorum.  
    7.
    Quest'ultima sezione dell'adhyaya descrive la risurrezione del cavallo, la perpetuazione della vita. Qui il significato di medhya è di primaria importanza. La parola medhya è comunemente resa "sacrificale", "adatta al sacrificio", ma questi significati sono secondari al senso primario di "abbigliamento", "forte", "vigoroso", "intero", "virile", “privo di imperfezioni” Questi significati primari sono quelli validi nel nostro contesto, perché il sacrificio è già stato fatto, e ora la vita è rinnovata: c'è una risurrezione e il ritorno del cavallo, una nuova, rinnovata natura-cavallo, la “cavallitudine” è stata resa di nuovo intera .
    “L’osservò intellettualmente”, “lo ricorda per tutto il tempo di un anno”: significa che ha mantenuto Lui, questi Tre Mondi, nell'essere vivente attraverso il ciclo del tempo angelico, la vita di un Brahmā-Prajāpati, che è un "giorno" del tempo supremo, durante il quale il Brahman "si sveglia". Il suo ricordo è la nostra esistenza.
    Ma poiché l'anima "onora maggiormente Dio per essere stato abbandonata da Dio", "resta per lei essere in qualche modo che Egli non è", "la piena intenzione di Dio" è che lei "ceda la sua esistenza", che “significa la morte dello spirito”, così con strane parole prega “Signore, il mio benessere risiede nel tuo e non mi è mai richiamato alla mente”, Eckhart, 1.274 e 376. Quel punto di vista è implicito nella conclusione dell'adhyaya, dove Colui che Comprende evita la mortalità, diventa immortale in piena identità (sayujya) con la Morte. L'immortalità non è la vita eterna ma non nascere mai, perché solo ciò che non nasce non può mai morire:
    Assolutamente la morte trascende l'esistenza e la non esistenza, sat e asat in una sola volta, tutto il bene e il male. Nel frattempo, l'esistenza è il bene primario, la ragion d'essere del sacrificio,
    "nessuna cosa può desiderare di non esistere",
    Egli non può, in Persona, volere la non esistenza dei suoi mondi prima della fine del tempo
    “questi mondi sarebbero distrutti se Io non lavorassi alle opere”, Bhagavad Gita, III.24,
    ed ha voluto poter avere dominio fino alla fine per poter “lavorare alle opere”, Brihadāranyaka Up., 1.4.17. Si noti che "lavori", karmāņi √kŗ, è anche un'espressione tecnica equivalente a "compiere sacrifici", "celebrare uffici".
    «Non trattenendolo»: cioè, permettendo al ciclo dell'esistenza, al nostro “processo di evoluzione”, di fare il suo corso senza interferenze, soggetto solo alla naturale consequenzialità degli incidenti, al lavoro latente (apūrva) e imprevisto (adŗşţa) di eventi passati. Come abbiamo già visto, ciò che Egli concede è la vita (prāņa), non la modalità o la specie:
    "Non emana né azione né azioni", na kartŗtvanna karmāņi sŗjati, è la natura propria di ogni cosa che opera ", svabhāvastu pravartate, Bhagavad Gitd, V.14,
    "quale dovrebbe essere il punto d’equilibrio?" nigrahah kim karişyati, ibid., III.33,
    La saggezza sta nella consapevolezza che non è "Io", non "Sé" che agisce,
    “Io non faccio nulla” dovrebbe essere inteso come colui che regge le briglie e conosce la realtà implicita, naiva kimcitkaromīti yukto manyet tattvavid, ibid., V.8,
    agendo così senza legami, “volontariamente ma non con volontà” di Eckhart, è liberato dalle coppie (nirdvandvah ) sciolto dalla schiavitù (bandhāt pramucyate), V.30, raggiungendo, nei termini del nostro testo, la Libertà (adititvā) di Aditi.
    Quindi, alla fine “dell’anno”, cosmico o terrestre, a seconda dei casi, il cavallo viene sacrificato, i suoi respiri vitali tornano a lui di cui è l'immagine, non come è nell'ipostasi (dvitīya ātmah), ma nell’Unità, là “il Figlio è perso nell'unità dell'essenza”, Eckhart, 1.275. Proprio come tutte le "anime" (bhūtānī) sono ritornate nella Sua natura universale alla fine dei tempi, Bhagavad Gitā, IX.8, così “l’anima” del cavallo è riportata alla sua origine quando viene ritualmente uccisa: ciò è fatto con un fine in vista, quella vita può essere rinnovata, proprio come all'inizio del tempo, in qualsiasi momento, nella primavera “dell’anno”, tutte le "anime" sono di nuovo riversate dalla loro latenza in lui, ibid.
    L'Aśvamedha cosmico è la Passione voluta dalla divinità incarnata, la Seconda Persona generata (dvitīya ātman), questo suo ulteriore sacrificio è una negazione della volontà di vivere, come la prima era la sua affermazione. Ma questa Passione e la morte formalmente intraprese non sono senza fine in vista, anche questa è un'opera desiderosa, kāmya karma, e come tale avrà le sue conseguenze in una rinnovata manifestazione della vita, in un altro Tempo, quando un altro Sole, un altro Cavallo, sarà versato (visŗşţi).
    L'Aśvamedha terrestre è l'enunciazione solenne di quella Passione, al fine analogo che la vita può essere rinnovata, resa vitale, rafforzata e continuata qui e ora, "chiedo il seme del cavallo maschio".
    Colui che intraprende il rito di conseguenza, con un occhio ai suoi frutti, vince la pienezza della vita sulla terra (cento anni, nell'analogia dei suoi 'cento anni'), ricchezza, prole, bestiame, qualunque cosa egli desideri qui, e quindi anche il mondo dei Patriarchi, dopo la sua morte: non è un'emancipazione finale, perché la ricompensa naturale delle opere interessate è inevitabile, deve tornare di nuovo alla rinascita, punar apādana e altre morti, il punitore Mŗtyu. Solo chi conosce, chi comprende, chi realizza e così esegue il rito intellettualmente, chi conosce il Sé-evidentemente che il cavallo è transustanzialmente Prajāpati, l'Anno, il Figlio, vince ora o nel tempo opportuno, secondo la perfezione della sua realizzazione, tornando all'Intelletto, al Brahman, ed è così liberato, egli non accetta la mortalità, essendo uno con la Morte, nella e della Suprema Identità, Un Angelo.
    “Difende l'immortalità”, allora cosa? Cioè, in ultima analisi al di là della nostra comprensione, che può estendersi solo all'operato delle Persone, che è al di là della comprensione di Dio stesso come Persona, "egli sa o non sa", come il Ŗgveda, X.129, 7, lo esprime. Poiché la cosa conosciuta è nel conoscitore sempre e solo secondo il modo del conoscitore, l'esistenza può conoscere solo dell'esistenza. È solo, senza un secondo che potrebbe conoscere, o da chi potrebbe essere conosciuto. Quindi, solo lui "sa" io sono Brahman "diventa questo Tutto. . . chiunque adori un Angelo diverso da lui - il Sé, pensando "Lui è uno e io un altro", non lo sa, può essere paragonato solo a un animale sacrificale adatto ad essere offerto agli Angeli, Bŗhadāraņīyaka Up., 1.4.10.
    Ciò che si trova al di là dell'ordine della natura, sulla sponda più lontana del tempo, viene paragonato dai Veda al sonno senza sogni o al quarto stato di sonno e veglia simultanei; ciò corrisponde nella fraseologia cristiana “all’ozio” o al "silenzio" e alla simultaneità del riposo eterno e del lavoro eterno. Nulla di ciò è comprensibile alla ragione, essendo inesprimibile in termini di tesi e antitesi. Vediamo nondimeno ciò che i veggenti vedici e cristiani hanno detto di questo stato di essere primordiale e senza forma.
    È implicito nella dottrina della riflessione, che il Sé è presente nel mondo nel corso del tempo, e che l'immagine del mondo e tutto ciò che è in esso è allo stesso modo presente al Sé nel tempo,
    “Lui, Varuna, conta il battito delle ciglia negli occhi di uomini”, Atharvaveda, IV 16.4,
    “non un passero cade a terra senza la conoscenza del Padre”,
    ciò che questo comporta per l'individuo è spiegato molto chiaramente nella nostra Upanişad, III.2.12, dove si dice che quando un uomo muore:
    “ciò che non esce da lui è il nome (nāma, 'noumeno'), che è senza-fine (ananta) e, poiché chi-è-senza-fine sono i vari angeli, quindi ottiene di conseguenza il mondo senza fine”.
    I Diversi Angeli sono la Trinità delle Persone, come spiegato di seguito. La nozione del "nome" deve essere inteso in connessione con quella dottrina della Parola, vāc, e quella dell'enunciazione, vyāhŗti, dei mondi: "'Nome' è 'idea', e ciò che si intende con l'infinità dei nomi nella loro persistenza come prototipi degli atti nella coscienza che è il Sé, il cui ricordo (manana) è la nostra esistenza (sthiti).
    Questa è una persistenza, come per "l'arte nell'artista" (Eckhart, 1.285), nell'Intelletto Triuno, o Ālaya-vijnāna buddhista, che Eckhart chiama il nostro
    "deposito di idee e forme incorporee", 1.402,
    “L'arte di Dio”, 1.461,
    “tutte le creature nel loro modo naturale sono esemplificate nell'essenza divina”, 1.253.
    Quell'eternità di prototipi individuali di tutti gli incidenti dell'essere non è affatto la stessa cosa di un'immortalità individuale dell'anima, come ora concepita, in nessun modo una ricompensa, ma puramente astratta e "nominale". Ciò è evidenziato molto chiaramente nella Kausītaki Up., 11.12-15, dove l'immortalità dei poteri angelici dell'anima non è rispetto alla loro specifica integrazione come un dato individuo, ma rispetto al ritorno dei vari poteri o elementi di coscienza alla loro unica fonte nel Sé conoscente, quasi letteralmente nelle parole di Eckhart
    "che combina con ogni potere divino lei è quel potere in Dio", 1.380.
    Quella perdita di creatura, e quindi la perdita di Dio come oggetto esterno della devozione Eckhart la chiama
    "la morte più bassa dell'anima sulla via della sua divinità", 1.274.
    Non intendiamo dire che una perpetuità (sthāyitā) della coscienza individuale senza un ulteriore cambiamento di stato durante una parte o tutto il tempo, e corrispondente più vicino all'idea popolare di immortalità, è esclusa dalle possibilità dell'esistenza. Al contrario, tali perpetuità sono previste come raggiungibili da coloro che non sono ancora Comprensori, ma che sono in grado di capire o di aver acquisito il merito con le buone opere. Tale perpetuità è su uno o l'altro dei piani inferiori dell'esistenza angelica, dove gli angeli-per-le opere godono dei frutti delle opere.
    Qui nel migliore dei modi si raggiunge il paradiso dell'Empireo per ritrovarsi nel suo eterno prototipo, il "nome" scritto nel Libro della Vita, l’anima stessa com'è nel Figlio manifestato.
    “Lì, quando spegne la sua natura creata, lampeggia il suo prototipo non creato (= nāma) in cui l'anima si scopre nell'increatezza… secondo la proprietà dell'immagine”, Eckhart, 1.275.
    Cioè, si trova nell'esempio, Cristo, Agnello, Cavallo, Prajāpati, l'Anno, nel suo
    “potenziale, la sua natura essenziale, intellettuale … rivelata nella sua la perfezione, nel suo fiore, dove germoglia dapprima nel terreno della sua esistenza e tutti concepiti dove Dio concepisce se stesso: questa è la felicità”, Eckhart, 1.290 e 82.
    L’essere è "uno con Dio che opera" (pravartana),
    "Le creature sono i suoi sudditi, tutti sottoposti a lei come se fossero opera sua", Eckhart, 1.290.
    “Lì perfetta, matura e intera è ogni desiderio; solo in essa c'è ogni parte, là dove è sempre stata, perché non è nello spazio né ha i poli », Dante, Paradiso, XXII. 64-67.
    Ivi è perfetta, matura e intera
    ciascuna disïanza; in quella sola
    è ogne parte là ove sempr’ era,
    perché non è in loco e non s’impola;
    Lì la volontà, essendo quasi nauseata, è quasi libera; perché, come Boezio lo esprime,
    " più la cosa è vicina alla Prima Mente, meno è coinvolta nella catena del destino";
    cioè, più vicina qualsiasi coscienza può essere al centro del giroscopio del divenire causale, samsāra, bhava-cakra, tanto meno la coscienza è determinata o vincolata da necessità esterne, più è autonoma. Ma per quanto gloriosa, per quanto desiderabile possa essere una tale proprietà, qualunque felicità oltre l'immaginazione (Bŗhadāraņīyaka Up., IV.3.33, Taittiriya Up., II.8), come
    “questo non è il culmine dell'unione divina, quindi non è il luogo abituale dell'anima”, Eckhart, 1.276, cfr. 410,
    “che è un luogo di riposo (viśrāma), non un ri-torno (nivŗti)”,
    in realtà “non c'è estinzione (nirvāņa) senza onniscienza (sarvajña)”, Saddharma Puņdarīka, V.74.75,
    "non fino a quando non sa tutto ciò che deve essere conosciuto, passa al bene sconosciuto", Eckhart, 1.385.
    Quindi questo non è né dal punto di vista indiano né da quello cristiano una fine. Perché quella
    “natura eterna in cui l'anima trova il suo modello è caratterizzata dalla molteplicità – le
    persone sono in separazione ... Ora Cristo dice: Nessun uomo viene al Padre se non per mezzo mio”... Anche se il luogo che dimora nell'anima non è in lui, deve, come dice lui, attraversarlo. Questa rottura è la seconda morte dell'anima ed è molto più importante della prima”, Eckhart, 1.275;
    “ci invita ad entrare dalla porta della sua emanazione e ritornare nella fonte da cui siamo venuti fuori ... il cancello attraverso il quale tutte le cose ritornano perfettamente libere alla loro felicità suprema”, Eckhart, 1.400.
    Questo risponde all'immagine Vedica del Sole Superno, Āditya, come il cancello tra i mondi (loka-dvāra), per cui vi è un'entrata (prapadana) e per chi Comprende porta in Paradiso (prānārāma, campo di giochi dello Spirito) ma è una barriera (nirodha) per lo sciocco (avid), Chāndogya Up., VIII.6.6;
    “non vi è alcun accesso da nessuna parte per quel sentiero qui nel mondo”, Maitrī Up., VI. 30;
    “Puruşa, della forma del Sole ... solo conoscendolo, si passa sopra la morte”, Svetāśvatara Up., III.8.
    È anche come Sole-Supremo che Vişņu è chiamato il "guardiano delle porte" degli Angeli e apre, per chi comprende, questa porta sacrificale, Aitareya Brāhmana, 1.36.
    “Agni si alzò in alto, toccando il cielo: aprì la porta del mondo dei cieli, in verità Agni è il signore del mondo dei cieli”, ibid., III.42,
    corrisponde al "mito" dell'ascensione e dell'essere Cristo seduto alla destra del Padre. Kristos e Agni, Figlio di Dio e Sacrificio riflessi sul Sole-Supremo, sono quell'Angelo con la Spada Fiammeggiante che custodisce le porte del Paradiso e un Capo-guida sullo stretto sentiero che conduce attraverso le acque superiori e inferiori al Regno del Sacro Graal. Dopo essere passato per gradi, l'uomo perfezionato (sukŗta), emancipato dalla modalità individuale, si mette finalmente al suo posto con Brahman sul
    «“sedile Lontano splendente” ... che è “Saggezza” (prajna) ... e il “trono della vita senza limite”... e per lui Brahman dice: Le Acque sono in verità il mio mondo e sono tue ", Kausitaki Up., 1.3-7.
    Quindi entra nella Signoria (aiśvarya) su tutte le possibilità dell'esistenza.
    Ma quel Plenum (pūrņa), quella Saggezza (prajñā), quel Sé (ātman) e lo Spirito (prāņa) non sono la fine.
    Rimane per l'anima così persa e tutt'uno con (sāyujya) il Padre un'ultima morte parimara, parinirvāņa, fanā al-fanā, "Annegamento" e "Despirazione": lì dove
    "Dio stesso abbandona il fantasma ... dimorando a se stesso sconosciuto, in agnosia e a-percezione"
    l’anima deve rinunciare a sé stessa e a Dio in Sé in un nulla del loro "nome" comune e "aspetto" intrinseco coincidente, là deve abbandonare "nome e aspetto", comunque idealmente concepito ...
    “Tutto deve andare. L'anima deve sussistere nel nulla assoluto ... La terza natura da cui l'anima va è la natura divina esuberante che energizza nel Padre ... l'anima deve morire per tutta l'attività denotata dalla natura divina se è sta per entrare nella divina essenza dove dio è del tutto ozioso.. Questa immagine suprema è il paradigma in cui l'anima è portata dal suo (ultimo) morire. . . morto e sepolto nella Divinità e la divinità vive per nient'altro che se stesso”, Eckhart, 1.2748.
    Così anche Blake,
    “Andrò all'auto-annientamento e alla morte eterna, perché il Giudizio Universale non venga a trovarmi non annichilito e io essere catturato e consegnato nelle mani del mio stesso io.”
    Questi detti non sono più strani né più particolari di quelli che si trovano nelle scritture indiane e corrispondono a ciò che viene detto quando questa Upanişad parla della Morte come ultimo fine e significato della nostra vita, o quando il Sunyavadin esaurisce le categorie di negazione nel definire il vero obiettivo dell'uomo. Questa è la Libertà dell'Infinito, aditer-adititva, Brihadāranyaka Up., 1.2.5,
    “libero come la divinità nella sua non esistenza”, Eckhart, 1.382:
    “Quando torno nel terreno, nelle profondità , nella sorgente della divinità, nessuno mi chiederà da dove sono venuto o dove sono andato”, 1.143.
    “Questo fine è nascosto nell'oscurità della Divinità eterna ed è sconosciuto e non è mai stato conosciuto, e non sarà mai conosciuto", Eckhart,
    essendo nella sua natura e per definizione inconoscibile. Là, il Sé, il nostro Sé e il Sé in Sé, entrambi dormono e si svegliano, vedono e non vedono, al contempo fonti e flusso, modesti e modificati, perché è tutto uguale per l'Indiscriminazione Suprema. Anche se parliamo di quello che dorme e di quella veglia come le notti e i giorni del tempo supremo, quella notte e quel giorno, l'oscurità e il sole, non sono come i nostri in successione, ma simultanei. Perché là, non c'è distinzione tra la potenzialità sconosciuta e l'atto cosciente: questo è precisamente ciò che significa il vedico ka, non possiamo capirlo, procede dalla potenzialità all'azione poiché pensiamo all'essere solo in termini di coscienza.
    Ciò che non possiamo comprendere non è quindi lontano da noi,
    “Il cielo è in tutti i punti equidistante dalla terra", Eckhart, 1.172;
    più vicino e più caro, annidato nel loto del cuore, inaccessibile alla conoscenza che sei tu. Sia che pensiamo al "Ciò" che è il Se come formato nella Persona, sia alla Persona come al Sé-indipendente, senza nome, senza forma, è tutto Un Angelo, Uno che trascende conoscente e ignaro, gnosi e agnosia.
    “È proprio come questi fiumi che scorrono verso il mare, il loro nome e aspetto sono annullati, si parla solo di «Mare»” Praśna Up., VI.5:
    “come la goccia diventa l'oceano ... quindi l'anima che assimila Dio si trasforma in Dio ", Eckhart, 1.242.
    Nelle parole di Ruysbroeck,
    “attraversa tutti i mondi dell'essere. . . i fiumi si riversano incessantemente in questo oceano… da dove non c'è ritorno… un abisso di oscurità, insondabile, senza limiti e senza qualità, al di sopra dei nomi delle cose create, al di sopra dei nomi di Dio… senza nome, eppure il punto centrale in cui tutti i nomi sono uno. È la cresta della montagna dello sforzo umano e l'abisso dell'essenza trascendente”
    cioè
    “E 'n la sua volontade è nostra pace:
    ell'è quel mare al qual tutto si move
    ciò ch'ella crïa o che natura face». Dante, Paradiso, III.85-6.
    "Il suo, in verità, è quel suo aspetto (vero) che è al di là dei desideri, libero dal male, senza paura. Come un uomo rinchiuso nell'abbraccio di una cara sposa, non sa nulla di un dentro né di un altro, così la Persona, abbracciata dalla Saggezza, dal Sé, non sa nulla di un dentro né di altro ... il suo desiderio è soddisfatto, il Sé è la sua volontà (kama), senza volontà (akāma), senza cura. . . . Lì il padre non diventa un padre; una madre non una madre; gli angeli non angeli; i Veda i non Veda; un ladro un non ladro ... non è seguito dopo dal merito né dal demerito, perché ha oltrepassato ogni angoscia del cuore ... vede anche se non vede ... sa anche se non ha gusto, parla anche se non parla, tocca anche se non tocca", Brihadāranyaka Up., IV.3.21-9.
    "Là", come cita Eckhart, 1.360, nel "Libro dell'amore",
    "là io ho sentito senza suono, là ho visto senza luce, lì ho respirato senza movimento, ho assaggiato cose che non avevo mai gustato, lì ho toccato ciò che non avevo mai toccato. Allora il mio cuore era senza fondo, la mia anima senza amore, la mia mente senza forma, e la mia natura senza natura."
    Là dove il Vuoto brilla nel Vuoto, Profondo risponde al Profondo, irraggiungibile dal pensiero ma tutto incluso nel loto del cuore, c'è la Suprema Identità, fonte e fine della vita, un solo angelo, addirittura la morte, il padre della vita.
    Sussurri di morte celeste mormoravano. Li ho sentiti ...
    Avresti ora il coraggio, o anima,
    Di uscire con me verso la regione sconosciuta,
    Dove non c’è terreno per i piedi, né alcun sentiero da seguire?
    Tutto attende il non sogno di quella regione, quella terra inaccessibile. 



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    2 note e appendice a "parti della Maitrī Upanişad"

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    NOTA 49 Apara è spesso tradotto come "occidentale", ma qui è sicuramente usato nel suo senso primario, cioè come quando parliamo di para e apara Brahman. Per le acque superiori e inferiori nella tradizione indiana si veda,ad esempio, ŖgvedaIII.22.3, oTaittirīyaSamhitā, IV.2.4, dove le acque del sole sono chiamate parastate quelle sottostanti sono avastat(= aparystāto apara) e Ŗgveda, X.136.5, dove i due mari sono pūrva e apara comunemente intesi come orientali e occidentali. Senza dimenticare che si tratta di mari cosmici, di cui il Golfo del Bengala e il Mar Arabico sono solo simboli, è abbastanza comprensibile che la parte superiore e inferiore possano essere tradotte alternativamente con significato di orientale e occidentale: proprio come il sole siderale sorge in un est reale e tramonta in un occidente reale, così anche il Sole Supremo deve sorgere analogicamente ad "est" e tramontare analogamente in acque "occidentali". Entrambi i mari erano originariamente di Varuņa (cfr. P. 59). Allora perché Varuna è in seguito particolarmente connesso con l'Occidente, la notte, la Luna, e non sempre con “l'Este l'Ovest” o “il Sole e la Luna”, “il giorno e la notte”? Perché il doppio Mitra-Varuņau era stato originariamente il nome personale di una divinità che si manifestata concepita sotto due aspetti, vale a dire, come Varuņa "alla nascita" (jāyase) e come Mitra “quando acceso”(samiddhah), Ŗgveda, V.3.1 e III.5.4: “alla nascita'”, significherebbe come “L’energia infuocata (tejas, mahi) dell'intenzione (tapas)”, cfr. Ŗgveda, X. 129.2, tapasah mahīnaajāyata: "quando acceso", significherebbe in processione come Luce (prakāśa) manifestata dal calore oscuro (uşņa), MaitrīUp., VII. 11, samīraņeprakāśa-prakşepauşņyasthānīya.Nel doppio Mitra-Varuņau, Mitra, "l'Amico", designa l'Agni terrestre, così spesso definito alla stessa maniera: "Amico" dell'uomo.Questo Agni terrestre,essendo il Figlio o la forma manifestata dello stesso Varuna; come nell'inno dedicato esclusivamente a Mitra, è il Testimone(bruvānah), l'occhio onniveggente nel mondo (animişā abhicaşţe, cfr il Buddha come cakkhum loke, Dīgha Nikāya, 11.158), è il comune denominatore di tutti uomini in quanto li "unisce" (yātayati) e sostiene (dadhāra, askambhayat) il cielo e la terra. Che Mitra sia comunemente considerato un aspetto celeste, o solare, come anche nell'Avesta, sebbene descritto come terrestre nel Ŗgveda, III.59, non presenta alcuna difficoltà; poiché la doppia nascita di Agni (dvijanma) è in cielo e sulla terra (dyāvā-pŗthivīya), sia in alto che qui sotto, i due fuochi sono"un angelo"come nel nostro testo (vedi p. 63); proprio come nella fraseologia cristiana, 'Io e mio Padre siamo Uno', essendo il Figlio anche Sole (vedi p. 68 e cfr. Nota 10).
     
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    granatiere granitico

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    IFEVAA7KPVH3BFYVR4573YRNVM

    La bizzarra storia del Triangolo di Hess, il cantiere più piccolo e costoso del mondo
    Questo posto, il cui valore è di $ 68.000 al metro quadrato, appare in quasi tutte le guide turistiche di Manhattan e persino il "New Yorker" gli ha dedicato un fumetto. Tuttavia, passa ancora abbastanza inosservato ai turisti, forse perché si sono dimenticati di guardare per terra.
     
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