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la via nascosta

Il Sacrificio - F. Shuon

F. Shuon

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    Questo articolo, apparso sulla revue di Etudes Traditionelle dell'aprile 1938, è citato da René Guénon nel capitolo su Caino e Abele nel "Regno della quantità e segni dei tempi" e non è uguale all'omonimo capitolo pubblicato nell'"Occhio del Cuore" dello stesso autore.

    Il Sacrificio
    F. Shuon
    I.
    La teoria del sacrificio è inseparabile da quella della manifestazione stessa, sia in senso ontologico che cosmologico del termine; per situare adeguatamente la questione, è necessario considerare soprattutto la manifestazione come un sacrificio, ossia il processo stesso della manifestazione. Possiamo sceglie-re, come esempio di questo sviluppo, una sua modalità particolare, cioè la manifestazione del suono, che è primordiale nell'ordine delle percezioni sensibili e vedremo in che modo essa simbolicamente tracci, allo stesso modo di qualsiasi altra modalità, il processo in questione. Infatti, per potersi pro-lungare nel tempo, il suono deve passare in qualche modo attraverso una serie di vibrazioni o, in altre parole, il suono può manifestarsi solo attraverso una sorta di arresti o lacune che in qualche modo lo estendono. Qui appare molto chiaramente la legge di compensazione insita in ogni manifestazione: considerare queste soste o questi vuoti come “sacrifici” rispetto alla manifestazione, di cui costituiscono tuttavia un elemento indispensabile, ci fa immediatamente comprendere in che modo il sacrificio è parte integrante della manifestazione e quale ruolo è chiamato a giocare: gioco inteso nel senso proprio del termine, vale a dire applicando l'idea che esprime all'ordine umano, individuale o sociale. Ritornando al nostro esempio del suono, aggiungeremo ancora che, se volessimo ignorare questo “vuoto” la cui applicazione all’ordine umano è il sacrificio, la manifestazione dovrebbe essere ridotta ad una sorta di esplosione istantanea che accentrerebbe in sé tutta la potenza o, se si vuole, tutta la vitalità del suono, potenza che, in condizioni normali, viene affermata proprio dalla forza e dalla durata del suono.
    Il suono manifestato nel tempo può dunque essere considerato, rispetto al suono istantaneo di cui abbiamo appena provvisoriamente ipotizzato la possibilità, come la rifrazione spezzata di questo suono; e, parimenti, qualunque manifestazione, qualunque essa sia, implica tale rifrazione di un prototipo concepito in modalità “istantanea”. Non si può però dire che una manifestazione «istantanea» o «centrale» sia a tutti gli effetti un'impossibilità: si tratta piuttosto di una possibilità relativa nell'ambito del-la sua impossibilità, se è consentito esprimerla in questo modo, cioè per dire che si realizza simbolicamente nella manifestazione normale, per assumere un aspetto malefico o benefico ma la questione è troppo complessa per poterci soffermare ulteriormente e ci limiteremo a citare come rispettivi esempi quello del cataclisma e quello del miracolo.

    Edited by amarisia - 17/12/2023, 21:21
     
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    Applicando questa teoria alla stessa manifestazione universale, diremo che il “mezzo” della sua realizzazione è l'Esistenza e che la sua “vibrazione” è la sequenza ciclica alla quale sono sottomesse tutte le modalità della manifestazione universale. Potremmo anche considerare la differenziazione con-naturata nell'Universo manifesto come la sua modalità “vibratoria” di realizzazione. Il principio di questa manifestazione è allora l'Essere che rimane fuori dell'Esistenza e, in modo analogo, il principio del suono o qualsiasi altra percezione sensibile rimane fuori dal suo mezzo di realizzazione o rifrazione, vale a dire il tempo e lo spazio.
    Abbiamo descritto in precedenza la vibrazione come implicante fermate o intervalli che si susseguono in un ritmo continuo; è bene però precisare che tali fermate o vuoti sono tali solo in relazione alle fasi positive della vibrazione, così come, nella vita di un essere terreno, i sonni sono solo soste in relazione allo stato di veglia e come, in un ciclo dell'esistenza individuale, le morti sono solo fermate rispetto alle vite; non esiste, infatti, alcuna soluzione di continuità in una “vibrazione”, o meglio, la soluzione di continuità che ivi osserviamo è solo apparente e molto relativa, come dimostra la perfetta omogeneità del “ritmo”. Ciò appare molto visibilmente quando rappresentiamo la vibrazione con una sinusoide: questa può essere considerata divisa in due parti dal suo asse orizzontale; la parte superiore e quella inferiore rappresenterebbero quindi rispettivamente le due fasi positiva e negativa della vibra-zione. La fase positiva formata dalla serie dei momenti di percezione, in una percezione sensibile si lascerebbe definire, in senso universale, come affermazione simbolica del principio immanifesto, quindi come manifestazione; la fase negativa, costituita da quelle che abbiamo chiamato le “fermate” o i “vuoti”, rappresenterebbe la ricapitolazione simbolica dello stato di non manifestazione; quanto alla linea che separa le due fasi vibratorie, potremmo considerarla come il limite dell'inversione tra l'immanifesto e il manifestato.
    Trasponendo questa immagine nella modalità cosmica, arriviamo alla concezione di ciò che gli indù chiamano i “giorni” e le “notti” di Brahma, vale a dire l’alternanza ciclica riguardante la manifestazione universale, alternanza che permette di comprendere la manifestazione: da questo punto di vista esiste veramente una soluzione di continuità, poiché è solo tramite questa “vibrazione” cosmica che la manifestazione si dissolve effettivamente o, meglio, si reintegra nell'immanifestato, anche se, nel senso più profondo, dobbiamo considerare, anche qui, una sorta di continuità. D'altra parte, quanto più i riflessi simbolici di questa vibrazione universale si relativizzano, tanto più si manifesta la continuità delle fasi vibratorie. Nel mondo sensibile o corporeo non esistono più vere e proprie rotture tra queste fasi: così lo stato della veglia e quella del sonno sono sempre legate e unificate dalla vita che non cessa, così come, in un ordine molto meno ristretto, i cicli individuali o "vite" di uno stesso esse-re sono sempre legati dall'individualità di questo essere.
    Questa legge comporta però una compensazione in senso opposto: se è vero che la discontinuità tra le fasi vibratorie è ridotta nei diversi ordini relativi, per il fatto che la vibrazione stessa avviene solo in un dominio molto ristretto e che non possono quindi esserci differenze così rigorose come quelle che, negli ordini superiori, si verificano a causa dell'infinità del Principio divino o della possibilità Universale, non è meno vero che questa continuità quasi “sostanziale” è compensata da una maggiore di-scontinuità nella la vibrazione come tale, che può poi essere realizzata in modo molto meno rigoroso che negli ordini più generali o universali: così, per prendere l'esempio del sonno, questo differisce solo molto relativamente dalla veglia, poiché l'individuo continua a vivere in entrambi gli stati; d'altro can-to, l'individuo può in una certa misura fare a meno del sonno e della veglia, che costituiscono ecce-zioni impossibili in un ordine così generale come quello della percezione sensibile o semplicemente dell'esistenza fisica, e ancor più negli ordini universali, dove nessuna eccezione può intervenire. Ma d'altra parte, se nell'Universale le fasi vibrazionali si susseguono rigorosamente, cioè se la sequenza ciclica non soffre di alcun divario, queste fasi o cicli stessi sono tanto più diversi tra loro degli altri, e questo perché il riassorbimento o reintegrazione del manifestato nell'immanifesto, invece di essere semplicemente simbolico, è qui efficace, come abbiamo detto sopra; mentre, se tra un sonno e l'altro non c'è quasi alcuna differenza, è proprio perché non esiste una reale soluzione di continuità.
    In un ambito relativo come quello della vita terrestre considerandola in rapporto all'individuo che la subisce, non nella sua intima struttura, la legge universale del processo di manifestazione non deve essere realizzata o simboleggiata con rigore assoluto, poiché la volontà individuale è all'estremo opposto, in un certo senso, della volontà divina, cioè della determinazione di principio o universale.
    È così perché gli ordini (le strutture) che appaiono relativamente più lontani dall'immutabilità principiale sono in tal modo specchi del Principio divino in virtù del rapporto di inversione che opera tra Principio e manifestazione. ed essendo la volontà individuale, nella sua essenza positiva e nella sua realtà, un riflesso della Libertà divina, essa può apparentemente contraddire la legge naturale, e realizzare le eccezioni di cui sopra parlavamo. Possiamo quindi dire dello stesso individuo che, sebbene sia assolutamente soggetto alla legge della manifestazione vibratoria unicamente in rapporto alla sua manifestazione come tale, lo è solo relativamente in rapporto alla sua vita volontaria, in base a quella che possiamo chiamare "libero arbitrio". Sotto il primo profilo, l'uomo, come ogni essere o cosa, è, per dirla in linguaggio islamico, naturalmente musulmano ("sottomesso" o "rassegnato"), cioè con-forme ai principi universali o, in altre parole, alla Volontà divina; ma sotto il secondo aspetto, quello della libertà relativa dell'uomo, egli può non essere musulmano, e allora o è mushrik ("associatore") quando si considera reale quanto la Volontà divina, oppure kâfir ("infedele" o “negazionista”) quando si considera l'unica ragione reale e l'unica ragione sufficiente delle sue azioni. Questi due attributi ne-gativi di mushrik e kâfir riguardano anche, in una certa misura, ogni uomo e perfino ogni essere, senza che ciò implichi necessariamente che quell'essere è necessariamente caratterizzato da queste determinazioni; shirk (“associazione”) e kufr (“negazione”) corrispondono a tamas (“ignoranza” o “oscurità”) della dottrina induista, tawhîd (“unione” o “unificazione”) corrispondente quindi a sattva (“bontà”). » o “conformità”) e il rajas (“passione”) di questa stessa dottrina è implicito sia nel tawhîd, sia nello shirk o nel kufr; queste due tendenze sono, come gli “attributi” o guna degli indù, qualità inerenti alla sostanza primordiale stessa da cui procede ogni manifestazione.
    L'uomo, poiché partecipa con la sua libertà individuale alla Libertà divina, rappresenta per l'intero Es-sere terreno e questo comprende tutti i regni della natura, il luogo centrale dove si realizza la possibili-tà di tale partecipazione, direttamente accrescitiva, alla Libertà o Indeterminazione divina, ciò spiega chiaramente il “diritto” che l'uomo ha sui regni della natura, “diritto” che entra in vigore anche nel sa-crificio.
    La vita volontaria dell'uomo è, quindi, una manifestazione che, dal punto di vista umano, non si rego-la spontaneamente o per così dire "automaticamente", come avviene per ogni manifestazione mera-mente "passiva" o "fisica". Spetta all'uomo conformare la propria manifestazione, quindi la propria vita, alla Norma universale e divina ed è qui che entra in gioco per lui la Tradizione, e più particolar-mente questo elemento, centrale di un certo rispetto, che designiamo con il termine "sacrificio".
    Possiamo considerare la Tradizione stessa come una sorta di “sacrificio” nei confronti della vita strettamente profana, che di per sé non comporta alcun elemento sovraindividuale; infatti ogni rito costituisce un'interruzione del flusso di questa vita e una sorta di morte rispetto ad essa. Ciò è visibile in modo particolarmente chiaro nel rituale islamico; la preghiera ripetuta cinque volte al giorno costituisce infatti un sacrificio dal punto di vista della vita puramente terrena e mondana, poiché la preghiera è una sorta di morte per questo mondo, proprio perché mette in gioco un elemento sovraindividuale che va oltre la vita e la contraddice in un certo senso. Detto questo arriveremo al sacrificio nel senso letterale ed immediato del termine.
     
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    Quanto abbiamo detto circa la manifestazione e la sua realizzazione in modalità “vibratoria” ci permette di intravedere la portata del sacrificio nel senso consueto del termine. Questo sacrificio riguarda la manifestazione della vita terrena in modo immediato perché non può escludere i significati superiori che necessariamente comporta e, per trasposizione simbolica, l'intera manifestazione universale di cui la vita terrena, essendo un microcosmo, è ovviamente un simbolo. Il sacrificio cruento costituisce una sorta di reminiscenza del Principio trascendente che è al di là della vita e che ne è la Causa positiva e divina, o anche una sorta di riferimento all'Immanifesto da cui ontologicamente scaturisce ogni manifestazione. Essendo la vita un “dono” dato dalla Causa Universale che, in questo senso, è considerata “Creatrice”, coloro che beneficiano di questo dono devono, per spiritualizzarla fare riferimento alla sua qualità simbolica, per renderla così più prospera e più duratura, restituire al Creatore o al Donatore una parte del suo Dono, quindi della vita. Ciò costituisce un'affermazione spirituale identica a quella contenuta nella testimonianza della fede islamica: «Non esiste divinità, se non la Divinità” (la ilaha illà Llâh), o, nell’applicazione che qui più particolarmente calza: “Non c’è vita, se non è Vita”, nel senso trasposto e assoluto di cui questo termine può essere suscettibile.
    Questa affermazione o questo omaggio formulato mediante il sacrificio, si ritrova nelle forme più diverse, cruente o non cruente: così, gli antichi greci versavano qualche goccia del vino che stavano per bere; molti popoli, ad esempio gli indù, mangiano solo dopo averne offerto una porzione alle divinità, per cui mangiano sostanzialmente solo resti sacrificali e se, musulmani ed ebrei, versano tutto il sangue dalla carne che consumano, la stessa intenzione gioca il ruolo principale. Aggiungeremo ancora un altro esempio di ordine diverso: i guerrieri di alcune tribù del Nord America sacrificavano, al momento della loro iniziazione guerriera, un dito al “Grande Spirito”. Va ricordato che le dita sono in un certo senso la cosa più preziosa per il guerriero, uomo d'azione, e che è proprio per questo che su di esse viene compiuto il sacrificio. D’altra parte, il fatto che abbiamo dieci dita e che ne sacrifichiamo una, cioè un decimo di ciò che rappresenta la nostra attività, è molto significativo, innanzitutto perché il numero dieci è quello del ciclo compiuto o pienamente realizzato, e poi per l'analogia che esiste tra il sacrificio di cui abbiamo appena parlato e la zakkât musulmana, che è l'elemosina ordinata dalla legislazione sacra, e che consiste appunto in una decima. Si dice poi che, per preservare e incrementare i beni, si evita che il ciclo della prosperità si chiuda, e ciò sacrificando la decima, cioè quella parte che costituirebbe appunto il completamento e la fine del ciclo. La parola zakkât ha il doppio significato di “purificazione” e di “crescita”, termini la cui stretta relazione appare molto chiaramente nell'esempio della dimensione delle piante. La parola zakkât deriva etimologicamente dal verbo zakâ, che significa “prosperare” o “purificare”, o, in un altro senso, “innalzare” o “pagare” il contributo sacro, o anche “aumentare”. Ricordiamo anche, in questo senso, l'espressione araba àîn, che non significa solo “Tradizione”, secondo la concezione più comune, ma anche “Giudizio” e, con una vocalizzazione leggermente diversa che fa sì che la parola venga poi pronunciata dayn, “debito”; anche qui valgono i rispettivi significati della parola, essendo la Tradizione considerata come il debito dell'uomo nei confronti del “Donatore” (el-Zahhâb) o il “Creatore” (el-Khâliq); e il “Giorno del Giudizio” (yawmi ed-Dîn) menzionato nella Fâtihah, “giorno” in cui Allah è chiamato il “Re” (mâlik), non è altro che il giorno del “pagamento del debito” dell’individuo verso la Causa universale che è la ragione sufficiente di tutti gli esseri individuali.
    Per tornare al sacrificio cruento che, come abbiamo visto, riguarda particolarmente la vita, non c'è ovviamente nulla di arbitrario nel fatto che sia il sangue versato al Creatore o Principio Donatore, poiché il sangue, come sappiamo, è giustamente considerato il veicolo più immediato della vita, che si manifesta da un lato con la sua circolazione e dall'altro con il suo calore; è anche in esso che gli elementi psichici entrano in connessione con la modalità corporea, questo è uno dei motivi per cui, in certe tradizioni, il suo consumo è proibito. C'è, nel sacrificio stesso, qualcosa di analogo al salasso; il corpo del malato corrisponde allora alla comunità umana che dona il suo sangue, sia perdendo quello di alcuni membri di questa comunità, sia sostituendoli con animali. Qui tocchiamo una questione molto importante, quella della differenza tra sacrificio umano e sacrificio animale; infatti, quando ci poniamo dal punto di vista delle considerazioni precedenti, di ciò che implicitamente affermano, dobbiamo concludere che, per una comunità umana, sono gli esseri umani che devono costituire il pagamento della “decima”.
    Ciò vale per una società in cui le condizioni cicliche non hanno ancora reso necessaria una espiazione del sacrificio cruento, vale a dire un trasferimento, per quanto riguarda la vittima, dall'uomo all'animale. D’altro canto, una società che, a causa di alcune condizioni cicliche, non può più trarre veramente beneficio dal sacrificio umano, rischierebbe di vederlo deviare, se lo mantenesse, in una direzione diametralmente opposta al significato originario e si rende allora necessaria la sostituzione della vittima umana con quella animale.
    Questo trasferimento è perfettamente valido dal punto di vista della tecnica, per così dire, del sacrificio, purché gli animali, senza far parte ovviamente della specie umana, appartengano tuttavia allo stesso modo come noi alla comunità vivente e terrestre, in modo più particolare alla comunità degli esseri caratterizzati dallo stesso sangue caldo; così il sacrificio rende l'animale partecipe della vita tradizionale che, in ogni epoca ciclica, è espressione di una realtà spirituale che riguarda anche gli animali. Per delucidare pienamente questa questione, bisognerebbe fare riferimento alla teoria della comunità terrestre considerata come un essere unico con modalità molteplici e gerarchiche, un essere la cui modalità centrale è l'uomo; ma poiché queste considerazioni si riferiscono solo indirettamente alla teoria del sacrificio, dobbiamo limitarci a menzionarle a titolo puramente indicativo.
    Possiamo anche notare che, sotto un altro aspetto, l'animale viene sacrificato in quanto è una proprietà preziosa dell'uomo; anche il sacrificio umano consiste, nello stesso rispetto, nell'immolare un bene, cioè il bene più prezioso della comunità umana o terrena: il sacrificio più prezioso, infatti, consiste nell'abbandono di una parte di colui che sacrifica, come ci ha mostrato l’esempio dei guerrieri indiani.
    Il passaggio dal sacrificio umano al sacrificio animale è segnato, nelle tre tradizioni monoteistiche, dal sacrificio di una pecora sostituita da Dio al figlio di Abramo; Va notato, tuttavia, per coloro che vorrebbero opporsi al sacrificio umano per ragioni individualistiche, che Abramo non doveva avere questo punto di vista, così come non lo avevano i sacerdoti delle tradizioni in cui il sacrificio umano era un'istituzione regolare, come era il caso, ad esempio, in un'epoca relativamente molto vicina a noi, tra gli indù e, in forma non cruenta, tra i cinesi.
     
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    Se consideriamo la parola evangelica: “Ama il tuo prossimo come te stesso”, che non significa né: “Ama il tuo prossimo più di te stesso”, né: “Non amare te stesso”, ma piuttosto: “Non distinguere il tuo prossimo da te stesso”. Se teniamo conto che questa parola è stata pronunciata da Cristo che ha compiuto volontariamente un supremo sacrificio umano, comprenderemo la piccola importanza che, ove fosse regolarmente istituito il sacrificio umano, dovrebbe essere considerato relativamente al benessere fisico o psichico della persona immolata; deve contare solo l'interesse spirituale, con tutto ciò che comporta, oltre ovviamente ai vantaggi individuali.
    Il sacrificio di Cristo è ciò che permette ai cattolici di macellare animali senza sacrificarli, poiché Cristo contiene, attraverso la sua divinità, ogni manifestazione; per questo per i cattolici, il sacrificio di un animale sarebbe una sorta di pleonasmo; sono come “coperti” o protetti dal sacrificio di Cristo che, come abbiamo appena detto, sintetizza in sé la totalità degli esseri. Non è lo stesso per i protestanti o i non credenti che non hanno il diritto di togliere la vita finché l’uomo non è capace di darla e che, quando uccidono senza sacrificio, attirano sulla loro testa una sorta di vendetta da parte della specie animale. Senza dimenticare il castigo della Divinità verso la quale l'uccisione da macellai profani è una sorta di furto e di oltraggio. Si tratta senza dubbio di una coscienza vaga e istintiva di queste conseguenze che portano alcuni ad aderire al vegetarianismo come se fosse una religione; possiamo dire che lo fanno per cattiva coscienza, senza ovviamente rendersi conto di quanto sia logico e prudente per loro il loro vegetarianismo; perché se lo capissero, non esiterebbero un attimo ad attaccarsi a una tradizione, piuttosto che cercare di sfuggire a certi effetti di eterodossia o di incredulità. Per quanto riguarda i popoli che vivono di caccia, non si può dire che uccidano necessariamente alla maniera del laico del mondo moderno; non c’è certamente nessun popolo, al di fuori del mondo moderno, che sia privo di ogni legame tradizionale dove l’uomo è vincolato da disposizioni rituali, o che queste si estendano a tutto, o che l'uomo ne sia esentato in certi casi per una sorta di compensazione tradizionale, come nel caso dei cattolici che possono uccidere animali senza rito.
    È però probabile che alcuni popoli omettano, a causa della degenerazione, i riti che osservavano originariamente; ogni atto della vita e in particolare anche la caccia, base della loro esistenza materiale, è sacro: ad esempio, il cacciatore pellerossa, quando aveva ucciso un bisonte, fumava davanti a lui la pipa, la “pipa di Pace”, uno strumento rituale fatto di argilla sacra e soffiava il fumo, che era solito dirigere nelle sei direzioni dello spazio, verso il muso dell'animale ucciso, per riconciliarsi, in qualche modo, con ciò che possiamo chiamano il “genio della specie”. Riti abbastanza simili si svolgono tra gli Enos e la maggior parte dei popoli della Siberia, e anche tra i Pigmei africani.
    Abbiamo detto sopra che il sacrificio umano rischia di deviare, in certi casi, come può avvenire anche per qualsiasi simbolo, dal “qualitativo” al “quantitativo” o dal rito alla superstizione, così da condurre a qualcosa di diametralmente opposto al sacrificio originario; questo caso era quello degli Aztechi e di numerose tribù più o meno degenerate. Dove la spiritualità si è ottenebrata, un sacrificio o una preghiera non sono più rivolti alla Divinità o ad uno dei suoi aspetti, ma ad un'entità psichica creata e mantenuta dall'adorazione collettiva, adorazione che, anch'essa, è solo psichica; non possiamo dire che in una tradizione normale un'entità simile sia assente ma è di minore importanza e di maggiore sostanza e serve semplicemente da supporto agli influssi divini, così come, nell'individuo, gli elementi psichici o la salute mentale svolgono un ruolo importante. ruolo analogo in relazione alle irradiazioni dell'intelletto.
    Quando le influenze divine si sono ritirate da una forma tradizionale e questa entità sussiste sola, abbandonata a sé stessa e ai suoi servi ignoranti, quest'ultimo diventa inevitabilmente un vampiro psichico e funge da dimora e strumento per le influenze oscure; è per questo motivo che Maometto rovesciò gli idoli della Mecca, divenuti fondamentali condensatori di tali influenze; questo spiega anche perché uno dei musulmani contemporanei del Profeta poté vedere, nel momento in cui ruppe un idolo e recitò la shahâdah, un'apparizione nera e orribile che fuoriusciva dall'interno della statua.
    Il sacrificio come ogni culto può degenerare in qualcosa di analogo all'idolatria, per poi diventare orgiastico e servire solo a nutrire un'entità psichica mostruosa, creata, come abbiamo detto, dalle emanazioni psichiche dei suoi adoratori e assetata del sangue che è il suo supporto vitale. Deviazioni di questo tipo si verificano sempre la dove le forme di culto non siano più adatte alle condizioni del momento ciclico; queste forme non sono allora altro che vestigia che continuano a vivere una vita puramente meccanica, così come un corpo decapitato può ancora subire contrazioni nervose. È allora che, nella maggior parte dei casi, interviene o una forma tradizionale adattata alle condizioni cicliche, oppure la distruzione pura e semplice.
    In questa ottica, dobbiamo stare attenti a non confondere le deviazioni stesse con le forme in cui si manifestano, forme che sconcertano l'immaginazione e il sentimento per la semplice ragione che non sono più conformi alle condizioni generali dei nostri tempi ciclici; non si può quindi affermare che il cannibalismo, ad esempio, costituisca in sé una deviazione e che abbia ovunque e sempre il carattere riprovevole che può avere tra i selvaggi che lo praticano; che sia, invece, capace di un significato positivo ed elevato risulta chiaramente da un rito come la comunione cattolica. Riguardo a questa dobbiamo ricordare le parole di Cristo che la istituì, parole il cui simbolismo non sarebbe possibile se non si riferisse ad una realtà corrispondente al loro significato immediato e letterale.
    La comunione, infatti, non è estranea al consumo rituale della carne umana; in entrambi i casi è per appropriarsi delle qualità della persona sacrificata che se ne consuma la carne, siano esse qualità spirituali o divine come nel caso dell'Eucaristia, o semplicemente umane come in quello dell'antropofagia dei selvaggi. Viceversa, è per non appropriarci di certe qualità di ordine inferiore che evitiamo di mangiare certi animali, questo è il senso della proibizione della carne di maiale presso i semiti monoteisti; l'animale atto a servire da cibo all'uomo deve quindi essere, in un certo senso, un animale sacro, concetto che esprimiamo dicendo che è «puro» e questo ci avvicina nuovamente al simbolismo della comunione cristiana. Se in quest'ultimo la quantità delle «specie» non ha alcun ruolo, è sempre in virtù della legge insita in ogni simbolismo, legge che esige una rigorosa subordinazione dell'aspetto sostanziale o quantitativo a quello essenziale e qualitativo, un rapporto che è dimostrato, come abbiamo detto, dal rifiuto di Cristo di lavare l'intero corpo di san Pietro. Questa legge spiega perché le esagerazioni viziose, come la golosità o la lussuria, non sono suscettibili di sacralizzazione, mentre l'alimentazione e la convivenza lo sono proprio grazie alla loro qualità simbolica fondata su analogie ontologiche o, per parlare senza alcuna restrizione, su quello metafisico. Analogie che collegano qualsiasi simbolo al Principio divino.
    Dobbiamo ancora rispondere, in questa occasione, alla seguente obiezione: con quale “diritto” un sacerdote può immolare un individuo contro la volontà di quest'ultimo? La risposta è data dall'esempio del guerriero indiano che sacrifica un dito a Vakonda: con quale “diritto” le dita della mano destra tagliano un dito della mano sinistra? Da questo esempio consegue immediatamente che il sacrificante non agisce evidentemente come individuo, ma semplicemente come strumento della comunità la quale, essendo la totalità, ha ovviamente tutti i diritti sulla propria parte, l'individuo, a condizione ovviamente che questa totalità sia unita da un legame spirituale, legame che è rappresentato, nell'esempio del guerriero indiano, dalla sua intelligenza che governa le sue azioni; da questo punto di vista la reazione dell'individuo, umano o animale, non ha alcuna importanza, né per la validità del rito, né per le condizioni postume dell'individuo immolato.

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    Anche la guerra feudale comporta un aspetto di sacrificio, non perché rappresenti una manifestazione del tutto generale delle condizioni sfavorevoli della nostra epoca ciclica ma piuttosto in quanto ha un significato positivo e che, per questo, rappresenta un tipo di legge, un modus vivendi o una disciplina per una data comunità umana. In questo senso, molti sarebbero ancora gli sviluppi da fare su un'altra modalità di sacrificio di carattere bellico, il seppuku, conosciuto in Occidente più in generale sotto il nome di harakiri, il suicidio rituale degli shintoisti. Quanto abbiamo detto in precedenza contiene implicitamente gli elementi necessari per comprendere questo caso così particolare di sacrificio umano; una sola osservazione ci sembra opportuna a questo proposito e cioè che l'harakiri, per il fatto che costituisce un rito attinente ad una prospettiva tradizionale che, per definizione, è una sorta di sistema chiuso ed omogeneo i cui elementi non sono in alcun modo assimilabili ad altre forme tradizionali, essendo compossibili solo nel loro stesso quadro, - l'harakiri, diciamo, non rientra in alcun modo sotto la legge del suicidio volgare e non rituale, perché “coperto” dalle disposizioni tradizionali dello Shintoismo.
    Di carattere alquanto diverso era il sacrificio dei re, un'altra forma di suicidio rituale praticato anticamente in alcune parti dell'India e in diversi altri paesi: il sovrano, dopo aver regnato per un determinato numero di anni, doveva mettersi a morte mediante tortura assistito dal suo successore e dal popolo riunito. Del resto, il codice sacro degli indù, il Mānava-Dharma-Śāstra, contiene diverse disposizioni che possono essere considerate appartenenti a questa stessa categoria di fatti scaturiti dall'idea di sacrificio, fatti che urtano estremamente l'immaginazione individualista dei moderni.
    Non sorprende, dato lo sviluppo specificamente individualistico della civiltà occidentale, che in Occidente rimanga poca traccia di questa idea fondamentale del sacrificio, lasciando da parte, ovviamente, l’immolazione giudeo-islamica e l’Eucaristia cattolica e che inoltre le ultime manifestazioni rituali di questa idea sono oggetto, in alcuni paesi, di divieti che sembrano voler completare la rottura, già per tanti aspetti realizzata, tra l'uomo e Dio.

    6.
    Esiste, oltre al sacrificio stesso, un'altra modalità di realizzazione della stessa idea, una modalità che riguarda non la comunità, ma il singolo individuo, almeno nell'immediato: ed è in quest'ordine che vanno collocate le pratiche ascetiche, dalle semplici astensioni alle macerazioni metodiche o violente in cui si impegnano certi asceti.
    In questo ordine di idee, però, il sacrificio non ha più lo stesso valore rigorosamente definito che aveva nell'ordine strettamente ritualistico: questo è soprattutto un supporto speculativo per chi lo pratica e la sua forma o qualità ha solo valore in questo senso, tanto che sarebbe errato attribuire ad una data forma di pratica ascetica un valore assoluto che solo il frutto spirituale ottenuto mediante tale pratica potrebbe avere. In altri termini, il sacrificio ascetico ha valore solo nella misura in cui suggerisce, attraverso il suo simbolismo vissuto e grazie alla sua virtù trasformatrice che lo assimila simbolicamente al fuoco, verità trascendenti. È valido solo nella misura in cui aiuta a prendere contatto con la spiritualità. realtà o stati superiori; solo questo conta qui, qualunque sia la strada che ad esso conduce e tutte le pratiche possibili, per quanto indispensabili possano essere per questo o quell'individuo, sono poco alla luce della Conoscenza.
    Dare un valore assoluto all'astensione disciplinare, come il digiuno, il silenzio, la solitudine o la castità, che sono evidentemente sacrifici, equivale ad una sorta di superstizione di fatto, che facilmente avviene qualora si sia sostituito, almeno nella pratica, la morale all'idea; dimentichiamo allora le possibilità speculative inerenti al simbolismo del godimento, simbolismo che può senza dubbio essere sostituito da quello della sofferenza ma che, nella maggior parte dei casi, viene semplicemente più o meno compensato da questa, di modo che è l'equilibrio tra due simbolismi opposti a costituire il percorso.
    Oltretutto, anche laddove ci poniamo quasi esclusivamente dal punto di vista del sacrificio, come nel cristianesimo e nel buddismo che non possono, dato il loro simbolismo fondamentale, porsi da un altro punto di vista, siamo obbligati a prendere parte al simbolismo opposto, e viceversa; sicché tra questi due simbolismi complementari c'è sempre, in ultima analisi, solo la predominanza dell'uno sull'altro, in conformità al simbolismo che determina la forma stessa della tradizione in questione.
    In sintesi, se il sacrificio non viene imposto all'uomo in modo esclusivo; vale a dire in modo da non lasciare alcuno spazio ad un atteggiamento diverso, come vorrebbe chi gli attribuisce un valore assoluto, ritenendolo il solo mezzo per ottenere il fine supremo, è che non siamo a tutti gli effetti solo manifestazione; e possiamo dire che meno lo siamo, meno ci riguarda il sacrificio, nessuna contingenza dell'essere manifestato potrà mai raggiungere il nostro stato contemplativo.
    D'altra parte, il sacrificio non si realizza necessariamente in perfetta simultaneità su tutti i livelli della nostra realtà e quindi il sacrificio supremo che è la povertà spirituale (el-faqr in arabo) è indipendente, in linea di principio, da atteggiamenti analoghi assunti su un piano inferiore o più esterno.
    Potremmo ancora esprimerci diversamente, in senso quasi opposto rispetto alla formulazione precedente e dire che il sacrificio è necessario nella misura in cui è di ordine elevato, perché si identifica in ultimo con l'ottenimento di quello di cui è solo l'aspetto negativo ma allora non si tratta più di sacrificio nel senso ordinario, cioè nel senso di una privazione separata dal suo scopo.
    La povertà spirituale, infatti, è un aspetto inseparabile della pienezza spirituale che è partecipazione diretta alla pienezza divina; e quando ci poniamo dal punto di vista di questa pienezza, in virtù di una grazia iniziatica, comprenderemo il significato di queste parole che abbiamo ascoltato da un derviscio arabo: “Non sono io che ho lasciato il mondo; È il mondo che mi ha lasciato.”
    Frithjof Schuon.
     
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